[aha] Pixxelpoint 2008 - For God's Sake! essay
Domenico Quaranta
qrndnc at yahoo.it
Tue Dec 2 17:10:14 CET 2008
FOR GOD'S SAKE!
Domenico Quaranta
God Always Uses the Latest Technology.”
Nella cittadina del nord Italia in cui vivo, economicamente
industriosa, culturalmente addormentata, religiosamente bigotta e
politicamente conservatrice, esiste un piccolo ma interessante “Museo
di Arte e Spiritualità”. Il museo raccoglie parte della collezione di
arte contemporanea di Giovanni Battista Montini, a.k.a Papa Paolo VI,
un celebre cittadino di quelle parti, e forse l'ultimo Papa cattolico
a credere che l'arte contemporanea potesse farsi veicolo del sacro.
Dopo un breve sguardo alla sua collezione, è facile convenire che la
fede nell'arte di Papa Montini era, come si conviene, cieca: se il
nostro è riuscito a raccogliere, accanto a qualche crosta, alcuni
indiscutibili capolavori – fra gli artisti della collezione spiccano i
nomi di Sironi, Morandi, De Chirico, Chagall, Kokoschka, Dalì,
Matisse, Manzù e Giacometti – è molto difficile rinvenire, nell'arte
di questi ultimi, la capacità di istruire il popolo dell'arte
medievale e rinascimentale, o quella di stupirlo e colpirne
l'emotività del barocco. Nessuno di questi lavori ha il potere
catalizzatore dell'icona. L'arte contemporanea mutua le retoriche
dell'arte sacra, impara i suoi linguaggi, si confronta con essa da una
prospettiva laica; a volte si fa veicolo di una spiritualità privata,
non necessariamente legata a una religione. E spesso, quando si
confronta con le religioni ufficiali, lo fa in forma provocatoria e
iconoclasta: si pensi alla rana crocifissa di Martin Kippenberger,
alla croce immersa nell'orina di Andres Serrano, alla Nona ora di
Maurizio Cattelan, alla vergine nera di sterco d'elefante di Chris
Ofili, alle recenti Madonne di Vanessa Beecroft – tutte immagini
impregnate di una loro indubbia “sacralità”, ma che pure nessun prete
appenderebbe in chiesa.
Anche l'arte postcoloniale, che confrontandosi con le tradizioni
locali ha spesso a che fare con la forte impronta che la religione ha
lasciato su di esse, sembra più intenta a denunciarne i
condizionamenti che a esaltarne le profondità. Nel mondo dell'arte
contemporanea solo il video sembra riuscire, a volte, a raccogliere il
lascito della grande arte sacra: si pensi in particolare a Bill Viola,
le cui opere, non a caso, sono entrate anche nelle cattedrali.
Ci potremmo interrogare su quanto questo sia legato alla fluida magia
dell'immagine elettronica e, più in generale, alla capacità dimostrata
dai mass media di farsi veicolo del messaggio religioso e di
recuperare la funzione di “biblia pauperum” che era stata dei grandi
cicli di affreschi. Se sette e religioni si sono, già da tempo,
impossessate delle frequenze radiofoniche e televisive, il cinema, da
The Ten Commandments (1956) alla The Passion of The Christ (2004), è
riuscito a fare quello che l'arte non può più da circa due secoli. Ma
è stato soprattutto con l'emergere di quello che è stato chiamato, con
espressione un po' edulcorata, “the clash of civilizations” che
abbiamo potuto renderci conto di un fenomeno che era, da tempo, sotto
lo sguardo di tutti: la straordinaria abilità e prontezza dimostrata
dai culti di ogni genere nell'uso dei media. La bolla papale che
dichiara valida la benedizione ricevuta nel corso di una trasmissione
radio in diretta (1967) ha più o meno la stessa età del primo,
leggendario video di Nam June Paik (Café Gogo, Blecker Street, 1965,
che ha come soggetto il Papa); lo stesso riconoscimento è arrivato per
Internet nel 1995, quando buona parte della classe politica europea
non si era nemmeno accorta della sua esistenza; su tutt'altro
versante, i video dei kamikaze palestinesi hanno fatto per lo sviluppo
dei “media tattici” molto più del movimento di Seattle. “God Always
Uses the Latest Technology”, ho letto su un sito cristiano. Le guerre
sante si combattono nei mondi virtuali almeno quanto in quelli reali,
e attraverso videogiochi come Under Ash e Kuma War tanto quanto con
autobombe e bombardamenti. Alla tecnologia chiediamo la conferma di
miti e miracoli, dalla Sacra Sindone al sangue di San Gennaro alle
lacrime della Vergine; il sostegno cattolico al kolossal di Mel Gibson
è cosa nota, come è noto che l'Opus Dei sia stata in grado, con
un'abile operazione mediatica, di volgere a proprio favore persino il
maldestro e popolarissimo attacco perpetrato da The Da Vinci Code.
Proprio in questi giorni, l'uso sapiente dei media da parte di sette e
religioni è il tema di una mostra, intitolata “Media Religion” presso
il Center for Art and Media di Karlsruhe (a cura di Boris Groys e
Peter Weibel). Citiamo dal comunicato: “Video has become the chosen
media for religious propaganda as it can be produced and distributed
particularly fast thanks to today's technology. [...]
The exhibition “Medium Religion” aims at demonstrating the medial
aspect of religion based on current examples of religious propaganda
and individual works by contemporary artists. Shown, among others,
will be confession videos by religiously inspired terrorists,
religious propaganda television series, and documentaries about
current sects and religious groups. The artistic works juxtaposing the
documentary material arise for the most part from the same context as
the religious movements that they refer to. The relationship of most
of the artists to religious rituals, images, and texts from their own
culture is neither affirmative nor critical but instead, blasphemous.
In this way, a critical analysis of the respective religious
iconography is possible as well as its crossover into modern culture.”
Se l'uso religioso – quando non cultuale – dei media ha contribuito a
riportare la religione al centro dell'attenzione degli artisti, le
ramificazioni del sacro all'interno della società dell'informazione
sono, se possibile, ancora più complesse e interessanti. Che ci
piaccia o no, la spiritualità ha plasmato l'evoluzione dei media – e
ne è stata, a sua volta, ampiamente influenzata. Due dei brand
tecnologici più efficaci, il simbolo del Grande Fratello e il logo di
Second Life, si ispirano platealmente all'occhio divino – ma più in
generale, l'iconografia sacra sembra essere un riferimento quasi
obbligato per molte aziende che si occupano di comunicazione e di
media, soprattutto statunitensi. I gadget tecnologici aspirano sempre
più, e con indiscutibile successo, al rango di feticci. Al rosario e
al santino abbiamo sostituito, senza grossi problemi, l'iPod e
l'iPhone; al libro di preghiere (fosse pure il libretto rosso di Mao
Tse Tung) il Notebook. L'immersione videoludica è, persino dal punto
di vista della postura, una nuova forma di preghiera o di estasi. Ai
motori di ricerca attribuiamo ormai un ruolo oracolare. “E' vero, l'ho
letto su Google” è un luogo comune che equivale a un atto di fede. Se
la religione è (stata) l'oppio dei popoli, negli anni Novanta era
banale dire lo stesso della televisione – più o meno come lo è oggi
dirlo di Youtube. I “God games” figurano tra i generi di videogioco di
maggior successo, e assieme alla visione satellitare, resa popolare
dai sistemi GPS e da Google Earth, dimostrano quanto ci piaccia
assumere, nei confronti del mondo, una posizione e un punto di vista
che ci assimilino a Dio. I greci lo ritenevano un peccato, e lo
chiamavano ubris. Oggi è un fatto comune, quasi banale, come è
diventato banale trasferire all'uomo un'altra prerogativa del divino,
quella di assumere forme diverse e servirsene per aggirarsi in mondi
differenti da quelli che frequenta di solito. Come allora, questa
proiezione dell'io divino si chiama avatar ma, a differenza di allora,
oggi è possibile per qualsiasi adolescente brufoloso. Per lui, la
“vita virtuale” è una realtà concreta, ma è spesso, come nel film
eXsistenZ (1999) di David Cronenberg (anch'esso al Pixxelpoint) un
culto collettivo, una religione; il fatto che, diversamente che nel
film, non vi si possa ancora rischiare la vita “vera” è solo un
dettaglio, in fondo trascurabile. Ancora, le tecnologie violano la
nostra privacy come solo Dio, un tempo, poteva fare: così, se proviamo
sempre più insofferenza nei confronti del sacramento della
confessione, abbiamo sempre meno problemi a esporci completamente sui
network sociali. E se i computer non sono ancora così potenti da
compiere il destino di HAL 9000, il cervellone esaltato di 2001 A
Space Odyssey, l'impressione è che ci manchi poco. In ogni caso, siamo
già abbastanza avanti da aver riversato le nostre ansie
millenaristiche, qualche anno fa, su un improbabile “millennium bug”
e, più di recente, su un evolutissimo acceleratore di particelle che
si è inceppato al primo sparo.
Scrivo queste righe sul mio Macbook, a bordo di un treno lento e
traballante il il cui ultimo make-up risale, probabilmente, ai primi
anni Novanta. Freccia della Versilia, si chiama. Di fronte a me, una
ragazza con scarpe a punta e jeans strappati si colora le unghie,
rispondendo di tanto in tanto ai messaggi che riceve sul suo
Blackberry. Interrotto il suo rito laico, estrae dalla borsa un
fascicoletto minuscolo, 5 centimetri di altezza e poche pagine. Sulla
copertina c'è stampata una Madonna col bambino, ma da alcuni dettagli
capisco che il libretto di preghiere non appartiene esattamente
all'ortodossia cattolica. Sul sedile a fianco, altre due ragazze. Una
ha aperto The Transfiguration of the Commonplace, di Arthur C. Danto;
l'altra, Timberland ai piedi e kefiah al collo, tiene in mano alcuni
appunti. Ma invece di leggere, le due ragazze parlano tra loro di
nirvana, della Profezia di Celestino e di finalismo, mescolando
filosofia, misticismo e new age. Poi si interrompono, quella che legge
Danto tira fuori un iPod.
GIURO. Che dio mi fulmini se non è vero. Se mi fossi guardato attorno
un po' prima, forse non avrei scritto quello che ho scritto. Ma il
fatto che nella borsa di una ventenne il Blackberry conviva con un
libro di preghiere, la Profezia di Celestino con l'iPod non è una
contraddizione, in fondo. Il futuro è già qui, e almeno in questa
parte del mondo è distribuito anche abbastanza bene, ma convive senza
troppi problemi con un passato che non vuole morire. Gli strani tempi
in cui viviamo sono figli, in egual misura, di sincretismi e sincronie.
La ricerca artistica contemporanea ha più volte sollevato queste
questioni: il feticismo tecnologico, la natura oracolare di Internet,
l'atteggiamento fideistico con cui usiamo i media e l'approccio
“evangelizzatore” di chi li produce. L'ha fatto adottando spesso un
atteggiamento critico, ma anche cercando nei media un veicolo
autentico di spiritualità. Quando ho cominciato a lavorare a For God's
Sake!, la mostra era soprattutto una tag cloud, un aggregato di parole
chiave: feticismo hi-tech, mistica della tecnologia, Millennium Bug,
HAL 9000, Brainstorm, Big Brother, Truman Show, sorveglianza,
dataveillance, privacy, oracolo, ritualità, avatar, comunità, social
networks etc. Avevo in mente alcune frasi e alcune opere, ma non
sapevo esattamente cosa avrei fatto. Sapevo invece esattamente cosa
non volevo fare: non volevo fare una mostra che attribuisse al termine
“religione” un unico significato; non volevo fare una mostra di arte
sacra, né una mostra blasfema, quanto piuttosto mescolare santi ed
eretici, fedeli e bestemmiatori; volevo lasciarmi alle spalle la
mistica cyberpunk, i techno-hippy, i data glove e i santoni delle
realtà virtuali, ma anche i fasti della ricerca audio-visuale e la
facile suggestione dell'elettromagnetismo e degli altri trucchetti
tanto amati dai tesliani. Ecco: quello che mi interessava, in modo
particolare, era sondare il rapporto che si viene a creare tra la
nostra vita spirituale, individuale e collettiva, e gli aggeggi che ci
troviamo a utilizzare tutti i giorni; capire come questi si
intrufolano nel nostro immaginario, come ne sfruttano e ne
arricchiscono i simboli e le metafore; capire, anche, dove si rifugi
la fede in un mondo che non sembra concedere spazio al privato, che ha
saputo trasferire lo “stile” del sacro agli oggetti di consumo, che
affonda il silenzio sotto un overload informativo senza precedenti.
A poco a poco, le opere hanno aggiunto carne e sangue a questi pochi
spunti. Li hanno arricchiti, e mi hanno sorpreso. Mi ha sorpreso la
forza di alcune immagini: la suggestiva Via Crucis di ombre immaginata
da Markus Kison, la danza dei satelliti orchestrata da Janez Janša, o
il viaggiatore di Briant Dameron, che cerca in uno schermo abbandonato
la conferma della propria esistenza. Mi ha sorpreso l'emergere di
alcune questioni che non avevo considerato, come l'indagine della
natura normativa e autoritaria di certi linguaggi e di certi stili:
dai tutorial raccolti ed esplorati da Petros Moris allo stile
Powerpoint parodiato da Clemens Kogler. E ancora di più mi ha sorpreso
scoprire, attraverso alcuni lavori, come esigenze, rituali, persino
sacramenti di fede possano trovare negli aspetti comunitari delle
tecnologie digitali un sostegno e una mediazione che non contraddice
affatto la loro originaria purezza. Il fatto che alcuni di questi
lavori adottino un approccio ironico non rende questa nuova dimensione
della ritualità meno interessante. Serissimo nei suoi presupposti
teorici è, ad esempio, Mission Eternity, l'ambizioso progetto in
progress del collettivo svizzero etoy. Mission Eternity si qualifica
come “a digital cult of the dead”, un culto che passa attraverso
tecniche di archiviazione digitale e di conservazione dei dati, così
come attraverso la dimensione sociale dei network peer to peer;
coniuga tecnologie e riti antichissimi, come quello cinese del “joss
paper”, riattualizzato per trasferire ai nostri defunti, anziché
denaro, azioni della etoy.corporation. Meditation for Avatars, degli
artisti tedeschi Ute Hoerner and Mathias Antlfinger, coinvolge una
serie di client - computer connessi in rete su cui sia stato
installato il lavoro - in una meditazione collettiva, che consiste
nell'eseguire un mantra e nell'inviarlo, via internet, agli altri
utenti connessi. Si viene così a creare una comunità di computer in
meditazione, che generano un campo di energia positiva che si
trasmette, secondo gli autori, agli utenti. Viceversa, l'Empathy Box
del collettivo italiano Io/cose da vita a una comunità di persone
unite dall'empatia, e dalla comune percezione del dolore, causato
dalla scossa elettrica generata dal dispositivo e trasmessa attraverso
una catena umana. Infine Confession 2.0, di Cristiano Poian e Paolo
Tonon, indaga i legami tra la crisi del sacramento della confessione e
l'esibizionismo digitale tipico dei social network attraverso un
confessionale hi-tech che rende pubblica la nostra confessione,
trasformandoci in “peccatori di successo”.
Lavori, tutti, che dispiegano riti, sacramenti, idoli e feticci di una
spiritualità che si va rinnovando in accordo con la mutazione
antropologica che stiamo attraversando. Come è sempre accaduto, a
maggior gloria di Dio.
--
Domenico Quaranta is an art critic and curator based in Brescia,
Italy. With a specific passion and interest in net art and new media,
Domenico regularly writes for Flash Art magazine. His first book
titled, NET ART 1994-1998: La vicenda di Äda'web was published in
2004; he also co-curated Connessioni Leggendarie. Net.art 1995-2005
(Milan, October 2005) and Holy Fire. Art of the Digital Age
(Bruxelles, April 2008) and co-edited, together with Matteo Bittanti,
the book GameScenes. Art in the Age of Videogames (Milan, October
2006). In February 2009, he will curate the Expanded Box for Arco Art
Fair in Madrid, Spain. www.domenicoquaranta.net
---
Domenico Quaranta
mob. +39 340 2392478
email. qrndnc at yahoo.it
home. vicolo San Giorgio 18 - 25122 brescia (BS)
web. http://www.domenicoquaranta.net/
"Computers are incredibly fast, accurate and stupid. Human beings are
incredibly slow, inaccurate and brilliant. Together they are powerful
beyond imagination." Albert Einstein
More information about the AHA
mailing list