[aha] comunicare - Chi? Che cosa? Perché? Come? Quando?

domenico.olivero at tiscali.it domenico.olivero at tiscali.it
Thu May 29 06:51:38 CEST 2008


Tempo fa ho preso questo libro incuriosito dal titolo e dal fatto che 
la comunicazione da sempre attira la mia attenzione, sia essa di massa 
o più semplicemente quella più diretta fra due persone. Considerando 
poi che questa è una mailing list mi pare azzeccato il voler affrontare 
questo tema. 

Il libro sarà una traccia, ma non seguirò semplicemente il testo ma 
tenterò di dare degli spunti per dialogare sul comunicare, il suo 
ruolo, il suo peso, il suo senso. 

Il libricino si apre con una interessante frase di Martin Heidegger

“Ogni genere di polemica è sin dall’inizio estraneo all’atteggiamento 
del pensiero. Il ruolo del polemista non è quello del pensiero. Giacché 
il pensiero pensa solo quando segue ciò che parla per una cosa. Ogni 
parola di attacco non ha qui altro senso che quello di proteggere la 
cosa.” 

Aggiungerei la definizione che ho trovato su wikipedia più alcune note 
(vedi sotto).

Proprio in questo nostro tempo di iper-comunicazione pare sempre più 
difficile poter affrontare un tema linearmente e sviscerarlo, tanto più 
che forse tanti altri lo hanno già fatto. 

(1) le informazioni sono diramate da tutti, spesso anche in modo 
discontinuo, e con incessanti mutamenti di significato e senso. In tal 
modo si ha una comunicazione superficiale e falsa, in quanto mai 
stabile e di senso. Quasi sempre è unidirezionale non permette da parte 
della collettività suoi interventi ma viene imposta a tutti tramite i 
“mezzi di comunicazione” che sono chiusi e spesso distanti dalla realtà 
quotidiana.


Appunti variii

da wikipedia 

La comunicazione (dal lat. cum = con, e munire = legare, costruire e 
dal lat. communico = mettere in comune, far partecipe) non è soltanto 
un processo di trasmissione di informazioni (secondo il modello Shannon 
e Weaver). In italiano, comunicazione ha il significato semantico di 
"far conoscere", "render noto". In tedesco, il termine Mitteilung 
mantiene la radice latina mettere in comune, condividere. La 
comunicazione è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione 
di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa (Grice, 1975).

Poiché il termine viene impiegato in contesti assai diversi,dalla 
filosofia alla sociologia alla psicologia, alla biologia, alla teoria 
dell'informazione, si rivela difficile offrire una definizione che sia 
da un lato significativa, dall'altro valida in ogni contesto.

La filosofia si è occupata del problema della comunicazione. Esempi di 
queste riflessioni si trovano in Socrate (Il dialogo: sommo bene) e 
Platone; il tema è poi trattato esplicitamente in Kierkegaard 
(Comunicazione d'esistenza)e in pensatori più recenti, come ad es. 
Wittgenstein, Searle o Derrida.

 Per approfondire, vedi sotto le voci Comunicazione filosofica e 
Comunicazione filosofica (Kierkegaard). 

Comunicazione significa sia il quotidiano parlare assieme delle 
persone, sia pubblicitá o pubbliche relazioni. Gli agenti della 
comunicazione possono essere persone umane, esseri viventi o qualsiasi 
altra "cosa". Infatti è colui che "riceve" la comunicazione ad 
assegnare a questa un significato (Friedemann Schulz von Thun, Ludovica 
Scarpa), per cui è la potenzialitá creativa dell'essere umano ad 
assegnare significati ad ogni cosa, creando il "sistema comunicazione" 
con le sue due caratteristiche: l' immaginazione e la creazione di 
simboli.
È tuttavia argomento di discussione se la comunicazione presupponga 
l'esistenza di coscienza, o se si tratti di un processo che può 
avvenire anche tra macchine. Se infatti è colui che riceve la 
comunicazione ad assegnare un significato ogni "cosa" puó comunicare.

Il concetto di comunicazione comporta la presenza di un'interazione 
tra soggetti diversi: si tratta in altri termini di una attività che 
presuppone un certo grado di cooperazione. Ogni processo comunicativo 
avviene in entrambe le direzioni e, secondo alcuni, non si può parlare 
di comunicazione là dove il flusso di segni e di informazioni sia 
unidirezionale. Se un soggetto può parlare a molti senza la necessità 
di ascoltare, siamo in presenza di una semplice trasmissione di segni o 
informazioni.

Nel processo comunicativo che vede coinvolti gli esseri umani ci 
troviamo cosí di fronte a due polarità: da un lato la comunicazione 
come atto di pura cooperazione, in cui due o più individui 
"costruiscono insieme" una realtà e una verità condivisa (la "struttura 
maieutica" proposta da Danilo Dolci); dall'altro la pura e semplice 
trasmissione, unidirezionale, senza possibilità di replica, nelle 
varianti dell'imbonimento televisivo o dei rapporti di caserma. Nel 
mezzo, naturalmente, vi sono le mille diverse occasioni comunicative 
che tutti viviamo ogni giorno, in famiglia, a scuola, in ufficio, in 
città.

Il concetto di feedback, o retroazione, centrale nella cibernetica, ha 
un ruolo fondamentale nei processi comunicativi. Possiamo individuare 
nella qualità della retroazione, e nel modo in cui il feedback viene 
usato nel processo comunicativo, un segnale per una "buona 
comunicazione". In tal caso si puó dire che il significato di una 
comunicazione sta nel suo risultato - ed è indipendente quindi dalle 
intenzioni dei partecipanti (come accade di dover sperimentare 
amaramente nella vita quotidiana). Vedi anche la voce: ascolto.

http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione





La comunicazione filosofica in Kierkegaard  
 « Fare il maestro è essere scolaro » 
 (Søren Kierkegaard, "Opere" a cura di C. Fabbro, Firenze 1972) 
 
Frammento del manoscritto de "La malattia mortale".Ad occuparsi in 
modo particolare del problema della comunicazione filosofica fu 
Kierkegaard che riprendeva la questione lasciata aperta da Socrate 
colui che considerava il suo maestro di vita. Egli cioè si poneva il 
problema di conservare il carattere dialogico della dottrina socratica 
in opere scritte e nello stesso tempo operare attraverso questa 
comunicazione una modificazione d'esistenza.

La natura contestatrice e per cosi dire rivoluzionaria di Kierkegaard 
si manifesta non solo nella sua lunga battaglia, dove impegnò anche le 
sue modeste risorse economiche, contro la Chiesa luterana danese 
accusata da lui di una borghese burocratizzazione e mondanizzazione che 
la portava a deformare e tradire l'originale messaggio cristiano, ma 
anche contro la filosofia accademica del suo tempo. In fondo anche 
l'uso del paradosso che fa il pensatore danese nell'esposizione del suo 
pensiero è un modo per andare contro l'opinione comune dei benpensanti, 
è un "guanto di sfida": il suo fine non è solo di far cogliere la 
razionalità nell'apparente assurdità di certe contraddizioni logiche ma 
anche quello di "epater les bourgeois", stupefare i borghesi come 
cantavano durante la Rivoluzione francese.

La filosofia, pertanto, secondo Kierkegaard, non può limitarsi a un 
aspetto puramente astratto e definitorio, non deve rimanere in 
superficie ma deve incidere nel profondo non solo di chi l'ascolta ma 
anche di chi la esprime e, in un certo senso, l'impersona. Una 
filosofia che è anche pratica di vita, dunque, com'è stato per i suoi 
due grandi modelli di riferimento: Cristo e Socrate. Ambedue con la 
loro parola hanno trasformato la vita di chi li ascoltava e ambedue 
hanno impegnato la loro vita sino alla morte per mantenersi fedeli a 
quanto sostenevano. La loro era una comunicazione d'esistenza.


 Pensiero e comunicazione  
Nell'intento di operare una sintesi che mantenesse i vantaggi sia 
della comunicazione orale socratica sia di quella scritta platonica, 
Kierkegaard divise la sua produzione filosofica in tre modalità di 
comunicazione:

la comunicazione diretta è utilizzata per quelle opere di contenuto 
religioso che vengono pubblicate a sua firma; 
la comunicazione indiretta: tutte le grandi opere che vengono 
pubblicate sotto pseudonimo; 
gli scritti non destinati alla pubblicazione come il Diario. 
Lo pseudonimo era stato un espediente della letteratura romantica 
sotto cui si nascondeva la vera identità dell’autore che, per vari 
motivi, voleva rimanere nascosto al pubblico dei lettori. In 
Kierkegaard lo pseudonimo,come per primo ha ravvisato lo studioso 
Gregor Malantschuck, assume tutt'altro valore e significato. Come dice 
lo stesso Kierkegaard lo scopo è quello di mettere in scena una sorta 
di "teatro delle maschere" di cui è il burattinaio lo stesso filosofo. 
Ogni opera ha indicato come autore un nome originale e significativo 
che vuole alludere allo stesso contenuto dell'opera, come ad esempio: 
l'autore della "Postilla conclusiva non scientifica" è indicato come 
"Climacus", mentre l'autore della "Malattia mortale" è "Anti-Climacus". 
Qui i due pseudonimi vogliono rimandare evidentemente a contenuti dove 
si dibattono tesi contrastanti. Lo scopo è quello di rendere le opere 
stesse veri e propri "personaggi" che dialogano tra loro, magari 
sostenendo argomenti contrapposti. Ogni nome è quindi una chiave 
d'interpretazione dell'opera, è una maschera di Kierkegaard che fa 
dialogare i suoi finti autori da un'opera all'altra. Questa è quindi 
una comunicazione indiretta , una comunicazione d'esistenza, dove la 
verità viene offerta al lettore che la dovrà scegliere tra le varie 
opere impegnando nella scelta se stesso e la sua esistenza.

Ma lo scopo degli pseudonimi è anche quello di riprodurre la 
caratteristica "ironia" socratica. Come Socrate che "sapeva di non 
sapere" prima ancora che si iniziasse un dialogo con il suo 
interlocutore, ma fingeva di "non sapere", presentandosi come 
ignorante, per non mettere a disagio chi dialogava con lui, ma 
soprattutto perché voleva che anche egli arrivasse liberamente alla sua 
professione di ignoranza, così Kierkegaard vuole non far apparire i 
suoi convincimenti e non identificarsi con quelli delle "maschere". In 
questo modo ogni pseudonimo può rappresentare liberamente una 
"possibilità d'esistenza" . Tutte queste possibilità esistenziali sono 
vissute da Kierkegaard come presenti in lui, ma egli non aderisce 
pienamente a nessuna di esse.


 La polemica sulla comunicazione  
Lo spirito contestatore di Kierkegaard è ben evidente anche nella sua 
polemica diretta contro la comunicazione, oggi diremo, di massa. 
L'accusa è quella di essere totalmente falsa non tanto perché i 
contenuti di questa comunicazione diretta a più individui sia più o 
meno vera, quanto perché nel rapporto tra chi emette la comunicazione e 
chi la riceve c'è una situazione di "anonimato". Nella "modernità", 
sostiene Kierkegaard, anche chi firma regolarmente il suo articolo, sia 
esso un giornalista, un pensatore non è mai "in carattere": egli cioè 
"non reduplica" ciò che dice nell'esistenza, e "reduplicare vuol dire 
essere ciò che si dice". Kierkegaard accusa la comunicazione "moderna" 
di voler mantenere un atteggiamento di distacco, di orgogliosa 
obiettività, di mancato coinvolgimento esistenziale in ciò che si 
scrive. Compito del comunicatore deve essere al contrario quello di 
conformare la sua esistenza a quanto egli afferma e scrive. Bisogna 
quindi "reduplicare " la parola come hanno fatto Cristo e Socrate il 
cui "merito infinito è precisamente di essere stato un pensatore 
esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l'esistere".(S.
Kierkegaard "Opere" a cura di C.Fabro, Firenze 1972.)

Nella stessa condizione di anonimato si trova chi riceve la 
comunicazione. Con lo sviluppo della stampa ormai tutto ciò che si 
scrive viene diretto al "pubblico" ma "il pubblico è un astratto che 
non esiste".(Ibidem,op.cit.) Kierkegaard ha evidentemente colto la 
trasformazione propria della società del suo tempo: egli percepisce il 
fenomeno ancora indistinto della massificazione che si manifesterà 
pienamente nel corso della prima guerra mondiale. Ormai all'opinione 
pubblica formata da una borghesia più o meno colta, consapevole delle 
proprie idee, che spesso condiziona il potere politico si sta 
sostituendo una massa anonima ed indistinta che riceve passivamente la 
comunicazione, se ne fa strumentalizzare e diventa vittima passiva di 
chi ha il potere, di chi controlla la comunicazione agendo sulle 
passioni e i sentimenti. La massa si conforta nel suo numero, si sente 
sicura solo quando ciò che pensa lo pensano anche gli altri poiché "la 
maggior parte degli uomini non ha paura di avere un'opinione errata, 
bensì di averne una da sola".(Ibidem,op.cit.)


 L'appropriazione della verità  
La comunicazione indiretta è dunque secondo Kierkegaard l'unica che 
può arrivare alla persona e questo lo si può fare "portando degli Io in 
mezzo alla vita. Perché il nostro tempo manca completamente di uno che 
dice : Io. Tali Io [ gli pseudonimi ] sono ora bensì degli Io poetici, 
ma sono comunque sempre qualcosa". (Ibidem, op.cit.) La comunicazione 
vera è dunque quella non del privato al pubblico , ma del singolo al 
singolo, dell'esistente all'esistente. Gli uomini devono diventare 
"attenti alla verità". La verità è "l'autoattività dell'appropriazione" 
. Come Socrate con il suo dialogo "inconcludente", così Kierkegaard non 
scrive mai "l'ultimo paragrafo che conclude il sistema" (Ibidem, op.
cit.). Filosofare per lui è fare domande, non dare risposte. Il singolo 
lettore dovrà porsi davanti il quadro delle varie possibilità 
d'esistenza rappresentate nelle opere e "come in uno specchio" 
riconoscersi o meno in una sola di queste. Avrà forse la sorpresa di 
cogliere un aspetto nuovo di se stesso; il suo spirito si risveglierà, 
"colpito alle spalle" da questa nuova verità su se stesso. "Tutta la 
mia feconda attività di scrittore – dice Kierkegaard – si riduce a 
quest'ultimo pensiero: colpire alle spalle" (Ibidem,op.cit.), stupire, 
sorprendere, scuotere chi viveva nell'ovattata illusione di una vita 
lontana dall'esistenza

http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione_d%27esistenza



Comunicazione filosofica
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Voce principale: Comunicazione.

 Nota disambigua - Se stai cercando una concezione particolare della 
Comunicazione filosofica, vedi Comunicazione filosofica (Kierkegaard).
La comunicazione filosofica, ovvero il modo di comunicare il pensiero 
filosofico, è un aspetto specifico della comunicazione, cioè 
dell'attività tipicamente umana attraverso cui sono resi disponibili, 
condivisi e generati contenuti[1] fra due o più persone.

 « Il mondo si trasforma sotto l'istanza della persona in un mondo di 
relazioni, in un mondo umano, che si distingue nettamente dal mondo 
dell'esperienza » 
 (Martin Buber, Ich und Du) 
Indice [nascondi]
1 Il problema nei filosofi antichi 
2 La soluzione di Platone 
3 La comunicazione filosofica nei pensatori del '900 
4 L'aspetto ontologico e gnoseologico 
5 La considerazione etica, religiosa 
6 Note 
7 Bibliografia 
 


 Il problema nei filosofi antichi  
Platone: oralità e scritttura 
Socrate: E allora, chi ritenesse di poter tramandare un'arte con la 
scrittura. e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà 
trarne qualcosa di chiaro e saldo. dovrebbe esser colmo di grande 
ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se 
ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un 
mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo 
scritto […] E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per 
tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani 
di coloro a cui non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi 
no. (Platone. "Fedro", trad. it. di C. Mazzarelli in "Tutti gli 
scritti" a cura di G. Reale, Milano 1991) 

Tra i primi pensatori della storia sono presenti autori che redassero 
le loro opere in forma di poema in versi; successivamente invece la 
filosofia venne scritta prevalentemente in prosa, sottolineando così la 
distinzione - teorizzata poi da Platone - fra poesia, come imitazione 
verosimile della realtà, e filosofia, che tende alla formalizzazione e 
alla espressione della verità ovvero dell'Idea. In questo modo però la 
filosofia rinunciava a quella forma artistica che ne rendeva la lettura 
più attraente.

Nell'antichità greca infatti il modo preferito per esporre un 
qualsiasi tipo di sapere era l'uso spontaneo della comunicazione orale. 
Quando compare la trasmissione scritta questa assume la funzione di 
fissare sinteticamente e in modo da renderlo memorizzabile un nuovo 
contenuto di sapere. Fino al V secolo, quando appaiono i sofisti 
maestri della tecnè (tecnica) della retorica, l'espressione poetica era 
certamente superiore alla prosa più adatta ad esprime pensieri 
astratti. Anche in seguito però, come nell'età ellenistica e tardo 
imperiale non viene abbandonato del tutto l'uso del verso come 
testimonia lo stoico Cleante nell' Inno a Zeus (G.Giannantoni [a cura 
di], "I presocratici, Testimonianze e frammenti" , Roma-Bari 1993 ,p.
378).

Un altro genere diffusamente usato nella comunicazione filosofica del 
periodo antico era l'epistola, generalmente rivolta a un conoscente o 
amico dello scrivente, e quindi di carattere, spesso, inizialmente 
privato. Del resto gli antichi erano poco propensi a pubblicare lettere 
riguardanti la loro sfera privata ed intima e quindi l'epistola assume 
mano a mano il valore di portare all'esterno dei lettori le proprie 
considerazioni filosofiche.

Nella scuola d'Aristotele si utilizzò questo genere letterario per 
scritti filosofici e d'argomento scientifico. All'inizio l'epistola era 
una risposta ad un preciso destinatario che avesse avanzato dubbi e 
obiezioni alla dottrina ufficiale successivamente divenne una vera e 
propria forma di comunicazione al pubblico, sotto forma di destinatari 
fittizi, di problemi filosofici. Un esempio di quest'ultimo tipo di 
comunicazione filosofica è la "Lettera a Meneceo" di Epicuro 
(introduzione e commento di M.Isnardi Parente ,"Opere di Epicuro", 
Torino 1974, pp.187-99)


 La soluzione di Platone  
Platone nella "Lettera VII" sembra sostenere posizioni simili a quelle 
del suo maestro Socrate sui limiti della scrittura ma sembra 
addirittura anticipare certe interpretazioni del valore della 
comunicazione d'esistenza in Kierkegaard quando dice che nasconderà le 
sue intime convinzioni sulle "cose di cui si da pensiero" poiché è 
difficile capirle se non in un contatto dialogico esistenziale 
piuttosto che nello scritto. " Questo però posso dire sul conto di 
tutti quelli che hanno scritto o scriveranno di sapere le cose di cui 
mi do pensiero, sia per averle udite da me, sia per averle udite da 
altri, sia per averle scoperte da soli: non è possibile, a mio parere, 
che costoro abbiano capito alcunché di questo oggetto. Su queste cose 
non c'è un mio scritto né ci sarà mai […] Per questo motivo nessuno che 
abbia senno oserà affidare i propri pensieri a un tal mezzo 
d'espressione, ad un mezzo immobile, come sono appunto le parole 
fissate nei caratteri della scrittura" (Platone, Lettera VII, 341b-
343°, trad.it. di R.Radice in Tutti gli scritti, op.cit. pp.1820-1821)

La soluzione di Platone fu quella di mantenere nel discorso filosofico 
l'espressione in prosa ma nello stesso tempo recuperare l'aspetto 
artistico introducendo la forma letteraria dialogica e soprattutto 
l'uso del mito.Platone cercherà di recuperare la sapienza poetica 
all'interno della filosofia, per Aristotele invece, rompendo ogni 
rapporto con la poesia, la filosofia sarà esclusivamente razionale e 
specialistica.

Il problema prevalente da Socrate in poi fu non tanto quello di dare o 
no veste artistica al pensiero filosofico, ma se la comunicazione 
dovesse avvenire oralmente o per iscritto.

Platone in effetti si trovava in disaccordo con il suo maestro Socrate 
il quale non aveva mai voluto esporre per iscritto il suo pensiero 
poiché per lui la parola scritta è come "un bronzo che percosso dà 
sempre lo stesso suono". Lo scritto cioè non rispondeva alle domande 
dell'interlocutore e questo annullava il valore del dialogo filosofico 
dove i due interlocutori cercano la verità insieme, con reciproche 
domande e risposte. Una verità che inoltre deve essere sempre rimessa 
in discussione e questo è possibile farlo solo con il dialogo, nella 
forma orale, poiché ciò che è scritto non muta.

Quindi si contrappongono due esigenze: quella di Socrate che aspira ad 
un filosofare aperto e in continua evoluzione che porti alla 
convinzione dell'interlocutore, ma che rimane poco preciso nel 
linguaggio colloquiale e nei suoi termini non ben definito, e quella di 
Platone che adotta un sistema chiuso di fare filosofia che non ammette 
repliche immediate poiché ciò che si afferma è stato a lungo meditato e 
fissato nella certezza della parola scritta e soprattutto perché 
vengono comunicate verità immutabili che provengono dal "mondo delle 
idee". Un modo di filosofare quello platonico più accurato ma, in un 
certo senso statico. Non è un caso che nella produzione platonica la 
forma dialogica socratica dei suoi scritti, presente nelle opere 
giovanili viene, a mano a mano, nella maturità, abbandonata: la figura 
di Socrate perde sempre più rilievo e il dialogo si riduce ad essere un 
monologo,un dialogo, com'è stato detto, dell'anima con se stessa.


 La comunicazione filosofica nei pensatori del '900  
La comunicazione negli autori del '900 acquista particolare rilievo 
nella corrente esistenzialistica e spiritualista come una delle 
esigenze fondamentali dell'uomo, senza di essa l'io perde se stesso: 
così nel movimento personalista di Emmanuel Mounier la comunicazione 
diviene un fatto "naturale" per il soggetto: "L'esperienza primitiva 
della persona, è l'esperienza della seconda persona. Il tu ed il lui in 
noi precede l'io, o almeno l'accompagna…Così essa è per natura 
comunicabile , ed è la sola ad esserlo. Allorché la comunicazione si 
rilascia, l'io si corrompe o si perde" (E.Mounier, "Le personallisme", 
Parigi 1949, p.38). Sullo stesso filone d'idee si colloca Karl Jaspers 
per il quale senza la comunicazione non solo la verità ma la stessa 
consapevolezza di esistenza non sarebbe possibile: "Tutto ciò che non 
si realizza nella comunicazione non esiste (…) La verità comincia a 
due" (K.Jaspers, "Einfùhrung in die Philosophie", Zurigo 1950, p.117): 
"Nella comunicazione divengo manifesto a me stesso con l'altra persona" 
("K.Jaspers, "Philosophie", II, Berlino 1932, pp.64-67; tr.it. nel vol. 
"La mia filosofia", Torino 1946, p.153). Per Berdjaev , il filosofo 
russo, studioso di Kierkegaard e interprete dell'esistenzialismo 
religioso,la comunicazione così come finora è stata intesa è ancora 
qualcosa di superficiale ed esteriore; egli preferisce parlare di 
"comunione" dove avviene la vera comunicazione, una relazione , una 
partecipazione spirituale dell' "io" col "tu" nel "noi : "C'è una 
differenza essenziale tra la comunicazione e la comunione. La 
comunicazione tra le coscienze implica sempre la disunione e la 
dissociazione". "La comunione si distingue precisamente dalla 
comunicazione per il suo realismo ontologico; la comunicazione essendo 
simbolica, usa solo dei segni convenzionali " (N.Berdjaev, "Cinq 
meditations sur l'exsistence" Parigi 1936, c.5, paragrafo 3: tr.it. 
"L'io e il mondo", Milano 1942, p.217 sgg.)


Al di fuori dello spiritualismo il tema della comunicazione assume 
particolare importanza in Ludwig Feuerbach come criterio antropologico 
della verità: "Le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione. Di 
quello che io vedo da solo non posso fare a meno di dubitare: è certo 
solo quello che anche l'altro vede" (L.Feurbach, "Grundsàtze der 
Philosophie der Zukunft": tr.it Torino 1946, pp.126-127)


Per Maurice Merleau-Ponty nell'ambito di una concezione 
esistenzialistica la comunicazione finora è stata intesa come 
l'inserimento dell'individuo in una comunità astratta non ben definita 
. Comunicare vuol dire invece impegnarsi - vedere a questo proposito la 
polemica sull' "engagement" (impegno) con Sartre - in un sistema di 
vita fatto da concrete relazioni storiche e sociali (cfr. "La 
phenomenologie de la perception", Parigi 1945; "Humanisme et terreur", 
Parigi 1947).

In Sartre ed Heidegger la comunicazione, intesa come relazione con 
l'altro richiede il superamento di se stessi, la rinuncia alle proprie 
caratteristiche esistenziali, alla propria individualità al fine di 
generare il "conflitto" reciproco e l'annullamento delle proprie 
coscienze individuali.

In un rifiuto della disinindividualizzazione è infine la concezione di 
Gabriel Marcel secondo il quale è insensato pensare di negare la 
propria individualità per togliere ogni differenza tra me e gli altri, 
essendoci una comune essenziale spiritualità: "Quando io tratto un 
altro come un "tu" e non già come un "lui", io penetro più 
profondamente in lui, colgo in maniera più diretta il suo essere e la 
sua essenza" (G.Marcel, "Diario", Modena 1943, p.83)

 L'aspetto ontologico e gnoseologico  
Da un punto di vista ontologico la comunicazione pone come 
ineliminabile condizione il riconoscimento dell'essere sia in me che 
negli altri come appropriazione dell'essere, riconoscimento della 
propria persona soggettivamente costituita e non scaduta a grezza 
oggettività materiale. Identificarsi quindi nella propria spiritualità, 
nell'essere se stessi. Per questo aspetto la comunicazione con sé non 
differisce da quella con l' "altro" ed è da questa seconda che si 
approfondisce la consapevolezza della propria individualità, è dal 
confronto comunicativo che la nasce la mia autoconoscenza: "la 
meraviglia del noi è che mediatizzando il mio rapporto a me stesso, mi 
permette di ritrovarmi nell'altro, meglio ancora che io non mi trovi in 
me stesso, e di scoprire il mio io più personale" (Jolivet, in 
"Giornale di Metafisica", Parigi 1950 p.65)

Per la gnoseologia la comunicazione è riportata al senso antico del 
dialogo socratico: come conquista di una verità in comune: "la 
cooperazione degli spiriti nella ricerca intellettuale e la loro unione 
per mezzo della verità, valore della conoscenza, assicura fra di loro 
quella familiarità di pensiero che permette il rinnovamento infinito 
della comunicazione" (R. Le Senne, ibidem, p.68)

 La considerazione etica, religiosa  
Sotto l'aspetto etico il riconoscimento del reciproco valore umano fa 
sì che la comunicazione assuma i diversi significati di amicizia, 
amore, benevolenza, collaborazione cioè per il bene in vista del 
progresso spirituale l'uno dell'altro.

Riconoscersi nel valore comune di umanità, come soggetti accomunati da 
questo stesso valore che non si esaurisce in noi ma che ci spinge l'uno 
verso l'altro come parte di un movimento infinito è il senso religioso 
della comunicazione così come l'intende Jolivet: "E' il valore che ci 
fa emergere dal mondo degli oggetti per costituirci in soggetti e 
persone, essi ci orientano verso l'Infinito…Io non comunico con l'altro 
che allorché lo ritrovo nel movimento che lo spinge al di sopra di lui 
e al quale devo partecipare io stesso: il valore dei valori" (Jolivet, 
ibidem p.42)

Un'ultima riflessione sulla comunicazione, nel suo significato del 
"dialogo dell'anima con se stessa", fa infine intendere come 
comunicazione anche lo stesso silenzio: "Il silenzio, lungi 
dall'abolire la comunicazione, ne abolisce solo la testimonianza; ma 
quando essa è più perfetta e più profonda, la testimonianza diviene 
inutile" (L.Lavelle, "La parole et l'ecriture", Parigi 1942, p.141)


 Note  [modifica]
1 Si indica qui con il termine "contenuti" l'equivalente nella 
linguistica di "espressione-contenuto" introdotto da L. Hjelmslev per 
il quale "espressione e contenuto sono i due piani dalla cui 
connessione risultano qualsiasi segno, testo e sistema di segni". 
(Hjelmslev L. "I fondamenti della teoria del linguaggio". A cura di 
Giulio C. Lepschy. Torino, 1975. p.56). Questi contenuti nella 
comunicazione specificamente filosofica sono di natura concettuale. 

http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione_filosofica





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