[aha] comunicare - Chi? Che cosa? Perché? Come? Quando?
domenico.olivero at tiscali.it
domenico.olivero at tiscali.it
Thu May 29 06:51:38 CEST 2008
Tempo fa ho preso questo libro incuriosito dal titolo e dal fatto che
la comunicazione da sempre attira la mia attenzione, sia essa di massa
o più semplicemente quella più diretta fra due persone. Considerando
poi che questa è una mailing list mi pare azzeccato il voler affrontare
questo tema.
Il libro sarà una traccia, ma non seguirò semplicemente il testo ma
tenterò di dare degli spunti per dialogare sul comunicare, il suo
ruolo, il suo peso, il suo senso.
Il libricino si apre con una interessante frase di Martin Heidegger
“Ogni genere di polemica è sin dall’inizio estraneo all’atteggiamento
del pensiero. Il ruolo del polemista non è quello del pensiero. Giacché
il pensiero pensa solo quando segue ciò che parla per una cosa. Ogni
parola di attacco non ha qui altro senso che quello di proteggere la
cosa.”
Aggiungerei la definizione che ho trovato su wikipedia più alcune note
(vedi sotto).
Proprio in questo nostro tempo di iper-comunicazione pare sempre più
difficile poter affrontare un tema linearmente e sviscerarlo, tanto più
che forse tanti altri lo hanno già fatto.
(1) le informazioni sono diramate da tutti, spesso anche in modo
discontinuo, e con incessanti mutamenti di significato e senso. In tal
modo si ha una comunicazione superficiale e falsa, in quanto mai
stabile e di senso. Quasi sempre è unidirezionale non permette da parte
della collettività suoi interventi ma viene imposta a tutti tramite i
“mezzi di comunicazione” che sono chiusi e spesso distanti dalla realtà
quotidiana.
Appunti variii
da wikipedia
La comunicazione (dal lat. cum = con, e munire = legare, costruire e
dal lat. communico = mettere in comune, far partecipe) non è soltanto
un processo di trasmissione di informazioni (secondo il modello Shannon
e Weaver). In italiano, comunicazione ha il significato semantico di
"far conoscere", "render noto". In tedesco, il termine Mitteilung
mantiene la radice latina mettere in comune, condividere. La
comunicazione è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione
di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa (Grice, 1975).
Poiché il termine viene impiegato in contesti assai diversi,dalla
filosofia alla sociologia alla psicologia, alla biologia, alla teoria
dell'informazione, si rivela difficile offrire una definizione che sia
da un lato significativa, dall'altro valida in ogni contesto.
La filosofia si è occupata del problema della comunicazione. Esempi di
queste riflessioni si trovano in Socrate (Il dialogo: sommo bene) e
Platone; il tema è poi trattato esplicitamente in Kierkegaard
(Comunicazione d'esistenza)e in pensatori più recenti, come ad es.
Wittgenstein, Searle o Derrida.
Per approfondire, vedi sotto le voci Comunicazione filosofica e
Comunicazione filosofica (Kierkegaard).
Comunicazione significa sia il quotidiano parlare assieme delle
persone, sia pubblicitá o pubbliche relazioni. Gli agenti della
comunicazione possono essere persone umane, esseri viventi o qualsiasi
altra "cosa". Infatti è colui che "riceve" la comunicazione ad
assegnare a questa un significato (Friedemann Schulz von Thun, Ludovica
Scarpa), per cui è la potenzialitá creativa dell'essere umano ad
assegnare significati ad ogni cosa, creando il "sistema comunicazione"
con le sue due caratteristiche: l' immaginazione e la creazione di
simboli.
È tuttavia argomento di discussione se la comunicazione presupponga
l'esistenza di coscienza, o se si tratti di un processo che può
avvenire anche tra macchine. Se infatti è colui che riceve la
comunicazione ad assegnare un significato ogni "cosa" puó comunicare.
Il concetto di comunicazione comporta la presenza di un'interazione
tra soggetti diversi: si tratta in altri termini di una attività che
presuppone un certo grado di cooperazione. Ogni processo comunicativo
avviene in entrambe le direzioni e, secondo alcuni, non si può parlare
di comunicazione là dove il flusso di segni e di informazioni sia
unidirezionale. Se un soggetto può parlare a molti senza la necessità
di ascoltare, siamo in presenza di una semplice trasmissione di segni o
informazioni.
Nel processo comunicativo che vede coinvolti gli esseri umani ci
troviamo cosí di fronte a due polarità: da un lato la comunicazione
come atto di pura cooperazione, in cui due o più individui
"costruiscono insieme" una realtà e una verità condivisa (la "struttura
maieutica" proposta da Danilo Dolci); dall'altro la pura e semplice
trasmissione, unidirezionale, senza possibilità di replica, nelle
varianti dell'imbonimento televisivo o dei rapporti di caserma. Nel
mezzo, naturalmente, vi sono le mille diverse occasioni comunicative
che tutti viviamo ogni giorno, in famiglia, a scuola, in ufficio, in
città.
Il concetto di feedback, o retroazione, centrale nella cibernetica, ha
un ruolo fondamentale nei processi comunicativi. Possiamo individuare
nella qualità della retroazione, e nel modo in cui il feedback viene
usato nel processo comunicativo, un segnale per una "buona
comunicazione". In tal caso si puó dire che il significato di una
comunicazione sta nel suo risultato - ed è indipendente quindi dalle
intenzioni dei partecipanti (come accade di dover sperimentare
amaramente nella vita quotidiana). Vedi anche la voce: ascolto.
http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione
La comunicazione filosofica in Kierkegaard
« Fare il maestro è essere scolaro »
(Søren Kierkegaard, "Opere" a cura di C. Fabbro, Firenze 1972)
Frammento del manoscritto de "La malattia mortale".Ad occuparsi in
modo particolare del problema della comunicazione filosofica fu
Kierkegaard che riprendeva la questione lasciata aperta da Socrate
colui che considerava il suo maestro di vita. Egli cioè si poneva il
problema di conservare il carattere dialogico della dottrina socratica
in opere scritte e nello stesso tempo operare attraverso questa
comunicazione una modificazione d'esistenza.
La natura contestatrice e per cosi dire rivoluzionaria di Kierkegaard
si manifesta non solo nella sua lunga battaglia, dove impegnò anche le
sue modeste risorse economiche, contro la Chiesa luterana danese
accusata da lui di una borghese burocratizzazione e mondanizzazione che
la portava a deformare e tradire l'originale messaggio cristiano, ma
anche contro la filosofia accademica del suo tempo. In fondo anche
l'uso del paradosso che fa il pensatore danese nell'esposizione del suo
pensiero è un modo per andare contro l'opinione comune dei benpensanti,
è un "guanto di sfida": il suo fine non è solo di far cogliere la
razionalità nell'apparente assurdità di certe contraddizioni logiche ma
anche quello di "epater les bourgeois", stupefare i borghesi come
cantavano durante la Rivoluzione francese.
La filosofia, pertanto, secondo Kierkegaard, non può limitarsi a un
aspetto puramente astratto e definitorio, non deve rimanere in
superficie ma deve incidere nel profondo non solo di chi l'ascolta ma
anche di chi la esprime e, in un certo senso, l'impersona. Una
filosofia che è anche pratica di vita, dunque, com'è stato per i suoi
due grandi modelli di riferimento: Cristo e Socrate. Ambedue con la
loro parola hanno trasformato la vita di chi li ascoltava e ambedue
hanno impegnato la loro vita sino alla morte per mantenersi fedeli a
quanto sostenevano. La loro era una comunicazione d'esistenza.
Pensiero e comunicazione
Nell'intento di operare una sintesi che mantenesse i vantaggi sia
della comunicazione orale socratica sia di quella scritta platonica,
Kierkegaard divise la sua produzione filosofica in tre modalità di
comunicazione:
la comunicazione diretta è utilizzata per quelle opere di contenuto
religioso che vengono pubblicate a sua firma;
la comunicazione indiretta: tutte le grandi opere che vengono
pubblicate sotto pseudonimo;
gli scritti non destinati alla pubblicazione come il Diario.
Lo pseudonimo era stato un espediente della letteratura romantica
sotto cui si nascondeva la vera identità dell’autore che, per vari
motivi, voleva rimanere nascosto al pubblico dei lettori. In
Kierkegaard lo pseudonimo,come per primo ha ravvisato lo studioso
Gregor Malantschuck, assume tutt'altro valore e significato. Come dice
lo stesso Kierkegaard lo scopo è quello di mettere in scena una sorta
di "teatro delle maschere" di cui è il burattinaio lo stesso filosofo.
Ogni opera ha indicato come autore un nome originale e significativo
che vuole alludere allo stesso contenuto dell'opera, come ad esempio:
l'autore della "Postilla conclusiva non scientifica" è indicato come
"Climacus", mentre l'autore della "Malattia mortale" è "Anti-Climacus".
Qui i due pseudonimi vogliono rimandare evidentemente a contenuti dove
si dibattono tesi contrastanti. Lo scopo è quello di rendere le opere
stesse veri e propri "personaggi" che dialogano tra loro, magari
sostenendo argomenti contrapposti. Ogni nome è quindi una chiave
d'interpretazione dell'opera, è una maschera di Kierkegaard che fa
dialogare i suoi finti autori da un'opera all'altra. Questa è quindi
una comunicazione indiretta , una comunicazione d'esistenza, dove la
verità viene offerta al lettore che la dovrà scegliere tra le varie
opere impegnando nella scelta se stesso e la sua esistenza.
Ma lo scopo degli pseudonimi è anche quello di riprodurre la
caratteristica "ironia" socratica. Come Socrate che "sapeva di non
sapere" prima ancora che si iniziasse un dialogo con il suo
interlocutore, ma fingeva di "non sapere", presentandosi come
ignorante, per non mettere a disagio chi dialogava con lui, ma
soprattutto perché voleva che anche egli arrivasse liberamente alla sua
professione di ignoranza, così Kierkegaard vuole non far apparire i
suoi convincimenti e non identificarsi con quelli delle "maschere". In
questo modo ogni pseudonimo può rappresentare liberamente una
"possibilità d'esistenza" . Tutte queste possibilità esistenziali sono
vissute da Kierkegaard come presenti in lui, ma egli non aderisce
pienamente a nessuna di esse.
La polemica sulla comunicazione
Lo spirito contestatore di Kierkegaard è ben evidente anche nella sua
polemica diretta contro la comunicazione, oggi diremo, di massa.
L'accusa è quella di essere totalmente falsa non tanto perché i
contenuti di questa comunicazione diretta a più individui sia più o
meno vera, quanto perché nel rapporto tra chi emette la comunicazione e
chi la riceve c'è una situazione di "anonimato". Nella "modernità",
sostiene Kierkegaard, anche chi firma regolarmente il suo articolo, sia
esso un giornalista, un pensatore non è mai "in carattere": egli cioè
"non reduplica" ciò che dice nell'esistenza, e "reduplicare vuol dire
essere ciò che si dice". Kierkegaard accusa la comunicazione "moderna"
di voler mantenere un atteggiamento di distacco, di orgogliosa
obiettività, di mancato coinvolgimento esistenziale in ciò che si
scrive. Compito del comunicatore deve essere al contrario quello di
conformare la sua esistenza a quanto egli afferma e scrive. Bisogna
quindi "reduplicare " la parola come hanno fatto Cristo e Socrate il
cui "merito infinito è precisamente di essere stato un pensatore
esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l'esistere".(S.
Kierkegaard "Opere" a cura di C.Fabro, Firenze 1972.)
Nella stessa condizione di anonimato si trova chi riceve la
comunicazione. Con lo sviluppo della stampa ormai tutto ciò che si
scrive viene diretto al "pubblico" ma "il pubblico è un astratto che
non esiste".(Ibidem,op.cit.) Kierkegaard ha evidentemente colto la
trasformazione propria della società del suo tempo: egli percepisce il
fenomeno ancora indistinto della massificazione che si manifesterà
pienamente nel corso della prima guerra mondiale. Ormai all'opinione
pubblica formata da una borghesia più o meno colta, consapevole delle
proprie idee, che spesso condiziona il potere politico si sta
sostituendo una massa anonima ed indistinta che riceve passivamente la
comunicazione, se ne fa strumentalizzare e diventa vittima passiva di
chi ha il potere, di chi controlla la comunicazione agendo sulle
passioni e i sentimenti. La massa si conforta nel suo numero, si sente
sicura solo quando ciò che pensa lo pensano anche gli altri poiché "la
maggior parte degli uomini non ha paura di avere un'opinione errata,
bensì di averne una da sola".(Ibidem,op.cit.)
L'appropriazione della verità
La comunicazione indiretta è dunque secondo Kierkegaard l'unica che
può arrivare alla persona e questo lo si può fare "portando degli Io in
mezzo alla vita. Perché il nostro tempo manca completamente di uno che
dice : Io. Tali Io [ gli pseudonimi ] sono ora bensì degli Io poetici,
ma sono comunque sempre qualcosa". (Ibidem, op.cit.) La comunicazione
vera è dunque quella non del privato al pubblico , ma del singolo al
singolo, dell'esistente all'esistente. Gli uomini devono diventare
"attenti alla verità". La verità è "l'autoattività dell'appropriazione"
. Come Socrate con il suo dialogo "inconcludente", così Kierkegaard non
scrive mai "l'ultimo paragrafo che conclude il sistema" (Ibidem, op.
cit.). Filosofare per lui è fare domande, non dare risposte. Il singolo
lettore dovrà porsi davanti il quadro delle varie possibilità
d'esistenza rappresentate nelle opere e "come in uno specchio"
riconoscersi o meno in una sola di queste. Avrà forse la sorpresa di
cogliere un aspetto nuovo di se stesso; il suo spirito si risveglierà,
"colpito alle spalle" da questa nuova verità su se stesso. "Tutta la
mia feconda attività di scrittore – dice Kierkegaard – si riduce a
quest'ultimo pensiero: colpire alle spalle" (Ibidem,op.cit.), stupire,
sorprendere, scuotere chi viveva nell'ovattata illusione di una vita
lontana dall'esistenza
http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione_d%27esistenza
Comunicazione filosofica
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Voce principale: Comunicazione.
Nota disambigua - Se stai cercando una concezione particolare della
Comunicazione filosofica, vedi Comunicazione filosofica (Kierkegaard).
La comunicazione filosofica, ovvero il modo di comunicare il pensiero
filosofico, è un aspetto specifico della comunicazione, cioè
dell'attività tipicamente umana attraverso cui sono resi disponibili,
condivisi e generati contenuti[1] fra due o più persone.
« Il mondo si trasforma sotto l'istanza della persona in un mondo di
relazioni, in un mondo umano, che si distingue nettamente dal mondo
dell'esperienza »
(Martin Buber, Ich und Du)
Indice [nascondi]
1 Il problema nei filosofi antichi
2 La soluzione di Platone
3 La comunicazione filosofica nei pensatori del '900
4 L'aspetto ontologico e gnoseologico
5 La considerazione etica, religiosa
6 Note
7 Bibliografia
Il problema nei filosofi antichi
Platone: oralità e scritttura
Socrate: E allora, chi ritenesse di poter tramandare un'arte con la
scrittura. e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà
trarne qualcosa di chiaro e saldo. dovrebbe esser colmo di grande
ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se
ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un
mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo
scritto […] E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per
tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani
di coloro a cui non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi
no. (Platone. "Fedro", trad. it. di C. Mazzarelli in "Tutti gli
scritti" a cura di G. Reale, Milano 1991)
Tra i primi pensatori della storia sono presenti autori che redassero
le loro opere in forma di poema in versi; successivamente invece la
filosofia venne scritta prevalentemente in prosa, sottolineando così la
distinzione - teorizzata poi da Platone - fra poesia, come imitazione
verosimile della realtà, e filosofia, che tende alla formalizzazione e
alla espressione della verità ovvero dell'Idea. In questo modo però la
filosofia rinunciava a quella forma artistica che ne rendeva la lettura
più attraente.
Nell'antichità greca infatti il modo preferito per esporre un
qualsiasi tipo di sapere era l'uso spontaneo della comunicazione orale.
Quando compare la trasmissione scritta questa assume la funzione di
fissare sinteticamente e in modo da renderlo memorizzabile un nuovo
contenuto di sapere. Fino al V secolo, quando appaiono i sofisti
maestri della tecnè (tecnica) della retorica, l'espressione poetica era
certamente superiore alla prosa più adatta ad esprime pensieri
astratti. Anche in seguito però, come nell'età ellenistica e tardo
imperiale non viene abbandonato del tutto l'uso del verso come
testimonia lo stoico Cleante nell' Inno a Zeus (G.Giannantoni [a cura
di], "I presocratici, Testimonianze e frammenti" , Roma-Bari 1993 ,p.
378).
Un altro genere diffusamente usato nella comunicazione filosofica del
periodo antico era l'epistola, generalmente rivolta a un conoscente o
amico dello scrivente, e quindi di carattere, spesso, inizialmente
privato. Del resto gli antichi erano poco propensi a pubblicare lettere
riguardanti la loro sfera privata ed intima e quindi l'epistola assume
mano a mano il valore di portare all'esterno dei lettori le proprie
considerazioni filosofiche.
Nella scuola d'Aristotele si utilizzò questo genere letterario per
scritti filosofici e d'argomento scientifico. All'inizio l'epistola era
una risposta ad un preciso destinatario che avesse avanzato dubbi e
obiezioni alla dottrina ufficiale successivamente divenne una vera e
propria forma di comunicazione al pubblico, sotto forma di destinatari
fittizi, di problemi filosofici. Un esempio di quest'ultimo tipo di
comunicazione filosofica è la "Lettera a Meneceo" di Epicuro
(introduzione e commento di M.Isnardi Parente ,"Opere di Epicuro",
Torino 1974, pp.187-99)
La soluzione di Platone
Platone nella "Lettera VII" sembra sostenere posizioni simili a quelle
del suo maestro Socrate sui limiti della scrittura ma sembra
addirittura anticipare certe interpretazioni del valore della
comunicazione d'esistenza in Kierkegaard quando dice che nasconderà le
sue intime convinzioni sulle "cose di cui si da pensiero" poiché è
difficile capirle se non in un contatto dialogico esistenziale
piuttosto che nello scritto. " Questo però posso dire sul conto di
tutti quelli che hanno scritto o scriveranno di sapere le cose di cui
mi do pensiero, sia per averle udite da me, sia per averle udite da
altri, sia per averle scoperte da soli: non è possibile, a mio parere,
che costoro abbiano capito alcunché di questo oggetto. Su queste cose
non c'è un mio scritto né ci sarà mai […] Per questo motivo nessuno che
abbia senno oserà affidare i propri pensieri a un tal mezzo
d'espressione, ad un mezzo immobile, come sono appunto le parole
fissate nei caratteri della scrittura" (Platone, Lettera VII, 341b-
343°, trad.it. di R.Radice in Tutti gli scritti, op.cit. pp.1820-1821)
La soluzione di Platone fu quella di mantenere nel discorso filosofico
l'espressione in prosa ma nello stesso tempo recuperare l'aspetto
artistico introducendo la forma letteraria dialogica e soprattutto
l'uso del mito.Platone cercherà di recuperare la sapienza poetica
all'interno della filosofia, per Aristotele invece, rompendo ogni
rapporto con la poesia, la filosofia sarà esclusivamente razionale e
specialistica.
Il problema prevalente da Socrate in poi fu non tanto quello di dare o
no veste artistica al pensiero filosofico, ma se la comunicazione
dovesse avvenire oralmente o per iscritto.
Platone in effetti si trovava in disaccordo con il suo maestro Socrate
il quale non aveva mai voluto esporre per iscritto il suo pensiero
poiché per lui la parola scritta è come "un bronzo che percosso dà
sempre lo stesso suono". Lo scritto cioè non rispondeva alle domande
dell'interlocutore e questo annullava il valore del dialogo filosofico
dove i due interlocutori cercano la verità insieme, con reciproche
domande e risposte. Una verità che inoltre deve essere sempre rimessa
in discussione e questo è possibile farlo solo con il dialogo, nella
forma orale, poiché ciò che è scritto non muta.
Quindi si contrappongono due esigenze: quella di Socrate che aspira ad
un filosofare aperto e in continua evoluzione che porti alla
convinzione dell'interlocutore, ma che rimane poco preciso nel
linguaggio colloquiale e nei suoi termini non ben definito, e quella di
Platone che adotta un sistema chiuso di fare filosofia che non ammette
repliche immediate poiché ciò che si afferma è stato a lungo meditato e
fissato nella certezza della parola scritta e soprattutto perché
vengono comunicate verità immutabili che provengono dal "mondo delle
idee". Un modo di filosofare quello platonico più accurato ma, in un
certo senso statico. Non è un caso che nella produzione platonica la
forma dialogica socratica dei suoi scritti, presente nelle opere
giovanili viene, a mano a mano, nella maturità, abbandonata: la figura
di Socrate perde sempre più rilievo e il dialogo si riduce ad essere un
monologo,un dialogo, com'è stato detto, dell'anima con se stessa.
La comunicazione filosofica nei pensatori del '900
La comunicazione negli autori del '900 acquista particolare rilievo
nella corrente esistenzialistica e spiritualista come una delle
esigenze fondamentali dell'uomo, senza di essa l'io perde se stesso:
così nel movimento personalista di Emmanuel Mounier la comunicazione
diviene un fatto "naturale" per il soggetto: "L'esperienza primitiva
della persona, è l'esperienza della seconda persona. Il tu ed il lui in
noi precede l'io, o almeno l'accompagna…Così essa è per natura
comunicabile , ed è la sola ad esserlo. Allorché la comunicazione si
rilascia, l'io si corrompe o si perde" (E.Mounier, "Le personallisme",
Parigi 1949, p.38). Sullo stesso filone d'idee si colloca Karl Jaspers
per il quale senza la comunicazione non solo la verità ma la stessa
consapevolezza di esistenza non sarebbe possibile: "Tutto ciò che non
si realizza nella comunicazione non esiste (…) La verità comincia a
due" (K.Jaspers, "Einfùhrung in die Philosophie", Zurigo 1950, p.117):
"Nella comunicazione divengo manifesto a me stesso con l'altra persona"
("K.Jaspers, "Philosophie", II, Berlino 1932, pp.64-67; tr.it. nel vol.
"La mia filosofia", Torino 1946, p.153). Per Berdjaev , il filosofo
russo, studioso di Kierkegaard e interprete dell'esistenzialismo
religioso,la comunicazione così come finora è stata intesa è ancora
qualcosa di superficiale ed esteriore; egli preferisce parlare di
"comunione" dove avviene la vera comunicazione, una relazione , una
partecipazione spirituale dell' "io" col "tu" nel "noi : "C'è una
differenza essenziale tra la comunicazione e la comunione. La
comunicazione tra le coscienze implica sempre la disunione e la
dissociazione". "La comunione si distingue precisamente dalla
comunicazione per il suo realismo ontologico; la comunicazione essendo
simbolica, usa solo dei segni convenzionali " (N.Berdjaev, "Cinq
meditations sur l'exsistence" Parigi 1936, c.5, paragrafo 3: tr.it.
"L'io e il mondo", Milano 1942, p.217 sgg.)
Al di fuori dello spiritualismo il tema della comunicazione assume
particolare importanza in Ludwig Feuerbach come criterio antropologico
della verità: "Le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione. Di
quello che io vedo da solo non posso fare a meno di dubitare: è certo
solo quello che anche l'altro vede" (L.Feurbach, "Grundsàtze der
Philosophie der Zukunft": tr.it Torino 1946, pp.126-127)
Per Maurice Merleau-Ponty nell'ambito di una concezione
esistenzialistica la comunicazione finora è stata intesa come
l'inserimento dell'individuo in una comunità astratta non ben definita
. Comunicare vuol dire invece impegnarsi - vedere a questo proposito la
polemica sull' "engagement" (impegno) con Sartre - in un sistema di
vita fatto da concrete relazioni storiche e sociali (cfr. "La
phenomenologie de la perception", Parigi 1945; "Humanisme et terreur",
Parigi 1947).
In Sartre ed Heidegger la comunicazione, intesa come relazione con
l'altro richiede il superamento di se stessi, la rinuncia alle proprie
caratteristiche esistenziali, alla propria individualità al fine di
generare il "conflitto" reciproco e l'annullamento delle proprie
coscienze individuali.
In un rifiuto della disinindividualizzazione è infine la concezione di
Gabriel Marcel secondo il quale è insensato pensare di negare la
propria individualità per togliere ogni differenza tra me e gli altri,
essendoci una comune essenziale spiritualità: "Quando io tratto un
altro come un "tu" e non già come un "lui", io penetro più
profondamente in lui, colgo in maniera più diretta il suo essere e la
sua essenza" (G.Marcel, "Diario", Modena 1943, p.83)
L'aspetto ontologico e gnoseologico
Da un punto di vista ontologico la comunicazione pone come
ineliminabile condizione il riconoscimento dell'essere sia in me che
negli altri come appropriazione dell'essere, riconoscimento della
propria persona soggettivamente costituita e non scaduta a grezza
oggettività materiale. Identificarsi quindi nella propria spiritualità,
nell'essere se stessi. Per questo aspetto la comunicazione con sé non
differisce da quella con l' "altro" ed è da questa seconda che si
approfondisce la consapevolezza della propria individualità, è dal
confronto comunicativo che la nasce la mia autoconoscenza: "la
meraviglia del noi è che mediatizzando il mio rapporto a me stesso, mi
permette di ritrovarmi nell'altro, meglio ancora che io non mi trovi in
me stesso, e di scoprire il mio io più personale" (Jolivet, in
"Giornale di Metafisica", Parigi 1950 p.65)
Per la gnoseologia la comunicazione è riportata al senso antico del
dialogo socratico: come conquista di una verità in comune: "la
cooperazione degli spiriti nella ricerca intellettuale e la loro unione
per mezzo della verità, valore della conoscenza, assicura fra di loro
quella familiarità di pensiero che permette il rinnovamento infinito
della comunicazione" (R. Le Senne, ibidem, p.68)
La considerazione etica, religiosa
Sotto l'aspetto etico il riconoscimento del reciproco valore umano fa
sì che la comunicazione assuma i diversi significati di amicizia,
amore, benevolenza, collaborazione cioè per il bene in vista del
progresso spirituale l'uno dell'altro.
Riconoscersi nel valore comune di umanità, come soggetti accomunati da
questo stesso valore che non si esaurisce in noi ma che ci spinge l'uno
verso l'altro come parte di un movimento infinito è il senso religioso
della comunicazione così come l'intende Jolivet: "E' il valore che ci
fa emergere dal mondo degli oggetti per costituirci in soggetti e
persone, essi ci orientano verso l'Infinito…Io non comunico con l'altro
che allorché lo ritrovo nel movimento che lo spinge al di sopra di lui
e al quale devo partecipare io stesso: il valore dei valori" (Jolivet,
ibidem p.42)
Un'ultima riflessione sulla comunicazione, nel suo significato del
"dialogo dell'anima con se stessa", fa infine intendere come
comunicazione anche lo stesso silenzio: "Il silenzio, lungi
dall'abolire la comunicazione, ne abolisce solo la testimonianza; ma
quando essa è più perfetta e più profonda, la testimonianza diviene
inutile" (L.Lavelle, "La parole et l'ecriture", Parigi 1942, p.141)
Note [modifica]
1 Si indica qui con il termine "contenuti" l'equivalente nella
linguistica di "espressione-contenuto" introdotto da L. Hjelmslev per
il quale "espressione e contenuto sono i due piani dalla cui
connessione risultano qualsiasi segno, testo e sistema di segni".
(Hjelmslev L. "I fondamenti della teoria del linguaggio". A cura di
Giulio C. Lepschy. Torino, 1975. p.56). Questi contenuti nella
comunicazione specificamente filosofica sono di natura concettuale.
http://it.wikipedia.org/wiki/Comunicazione_filosofica
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