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<DIV><FONT face=Arial size=2>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">Lo Slai Cobas dà
l’indicazione di non votare alle prossime elezioni politiche, in un documento
dal titolo “Elezioni: nessuno difende le condizioni dei lavoratori”. A prima
vista sembrerebbe un segnale di radicalizzazione politica per questa
organizzazione che condivide con gli altri sindacati di base, anzi in misura
maggiore degli altri, la confusione tra livello politico e sindacale. Confusione
che fa di queste formazioni, chi più e chi meno, nient’altro che gruppetti
politici travestiti da sindacati e condannati perciò ad un cronico minoritarismo
riformista. Minoritarismo, perché la dimensione di gruppo politico spinge al
settarismo e alla difesa della propria parrocchia, mentre compito prioritario di
un sindacato è la conquista della maggioranza fra i lavoratori che vuole
rappresentare. Riformista, perché la confusione dei due livelli, politico e
sindacale, riduce la politica ad una proiezione della lotta sindacale e, visto
che la lotta sindacale è sempre una lotta per la “pagnotta”, in politica queste
formazioni non riescono ad oltrepassare l’orizzonte ristretto di un
miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, fermo restando l’attuale
sistema sociale.<?xml:namespace prefix = o ns =
"urn:schemas-microsoft-com:office:office" /><o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">Torniamo in
particolare allo Slai. Certo, per un’organizzazione che, tanto per fare degli
esempi, nel 1996 ha sostenuto la candidatura di una sua dirigente, Mara
Malavenda, nelle liste di Rifondazione Comunista, con la motivazione che questo
partito era quello che più difendeva i lavoratori, per poi ricandidare la stessa
(a dimostrazione che il lupo perde il pelo ma non il vizio) nelle regionali 2005
in Campania nella lista del Partito dei Comunisti Italiani di Diliberto,
l’attuale presa di posizione appare come una rottura con il passato. Tale
impressione è ancora di più rafforzata se la si confronta al sostegno che, anche
in maniera sotterranea, altri sindacati di base stanno dando alle varie liste
presenti alla sinistra di “sinistra arcobaleno” se non addirittura a
quest’ultima. Vale la pena, allora, soffermarsi ad analizzare le caratteristiche
di questa “svolta” dello Slai.<o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">Nel documento citato,
leggiamo che lo Slai vuole “<I style="mso-bidi-font-style: normal">favorire la
formazione di un’organizzazione politica indipendente del proletariato</I>” e
che per far ciò ritiene necessaria la creazione di un sindacato di classe che
non può nascere dalla semplice unificazione dei sindacati di base, ma che
necessita di “<I style="mso-bidi-font-style: normal">un processo di unificazione
dei proletari, a partire dai posti di lavoro. Un processo che coinvolga
lavoratori iscritti ai sindacati di base, ai sindacati confederali, non iscritti
e si apra al territorio, agli immigrati, collegandosi a comitati di lotta,
centri sociali, lavoratori a vario titolo organizzati. Un processo di
unificazione su obiettivi e piattaforme comuni e condivisi, in cui tutte le
realtà esistenti abbiano pari dignità e che si ponga quale strumento per
coordinare in modo permanente tutti i vari episodi di lotta e resistenza, nei
posti di lavoro e nel territorio</I>”. Siamo di fronte alla solita salsa
movimentista e interclassista. La questione centrale della creazione del partito
operaio (termine a cui, e non a caso, lo Slai preferisce quello più generico e
indeterminato di proletariato) viene posticipata alla formazione di un
fantomatico sindacato di classe, senza che nulla venga detto su cosa si intenda
per “sindacato di classe” e su come, soprattutto, sia possibile pensare alla
formazione di un’organizzazione sindacale degli operai che ne organizzi la
maggioranza e che sia saldamente diretta da questi, prescindendo dal processo di
organizzazione politica indipendente degli operai. Il sindacato, per sua propria
natura, tratta la compravendita della forza lavoro. Fin quando si resta in
questo quadro ristretto, si è sempre sensibili alle esigenze di conservazione di
questo rapporto, per il semplice fatto che la rovina del padrone trascina con sé
la rovina dei “suoi” operai. In altri termini, anche per il sindacalista “di
classe” più arrabbiato e radicale vien sempre il momento in cui, per tutelare
l’azienda e, quindi il posto di lavoro, è spinto ad accettare e a far accettare
agli operai le condizioni imposte dal mercato, rinunciando o mitigando le
proprie rivendicazioni. Poco cambia se prima che scatti questo meccanismo il
sindacalista “di classe” abbia spinto le proprie rivendicazioni fino ad ottenere
la nazionalizzazione dell’azienda. Viene sempre il momento del risanamento
economico e anche su questo terreno padrone pubblico e padrone privato non fanno
alcuna differenza. Non fa alcuna differenza neanche la versione più estrema di
questo processo, che ogni tanto compare in alcuni momenti intensi di crisi
sociale e in pochissimi esempi isolati, la tanto decantata autogestione
dell’azienda. Gli operai, “padroni” della loro piccola fabbrica devono misurarsi
con la concorrenza e stabilire al proprio interno le stesse gerarchie e lo
stesso sfruttamento dell’azienda capitalistica tipo. La storia del movimento
cooperativistico è la campana a morte di ogni illusione su questo terreno. Ben
altro comportamento ha il sindacalista operaio che non si limita al ristretto
orizzonte sindacale, ma che si muove nella prospettiva dell’eliminazione del
rapporto di compravendita fra operai e padroni. Solo chi persegue l’obiettivo
dell’eliminazione dei padroni può veramente essere insensibile alle esigenze del
mercato, perché sa che le sue lotte di resistenza economica sono inserite in un
più vasto tentativo di presa del potere politico per la liberazione degli operai
dalla schiavitù del lavoro salariato, per eliminare la stessa necessità degli
operai di vendersi ad un padrone per poter campare. Ecco perché la stessa
successione gradualistica sostenuta dallo Slai, prima il sindacato di classe e
poi il partito, è la variante, declinata in salsa movimentista, dello stesso
opportunismo riformista che ha spinto negli anni precedenti questa
organizzazione ad appoggiare prima Rifondazione e poi i Comunisti
Italiani.<o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">Come si dovrebbe
costruire questo “sindacato di classe”? Coordinando le lotte di tutti i settori
sociali. Un bel calderone in cui nessuna differenza viene posta fra chi, gli
operai, produce la ricchezza per tutti e chi, sia pur sottoposto ad un lavoro
subordinato, si appropria di una parte di questa ricchezza. Eppure è evidente,
ad esempio, che i dipendenti pubblici hanno come interesse prioritario
l’allargamento della spesa statale e che per loro, pur sostenendo magari
l’esigenza di parziali modifiche nella distribuzione della ricchezza sociale, è
essenziale che gli operai producano questa ricchezza e che nella misura maggiore
possibile cresca la quota di essa non consumata dagli operai ma disponibile per
le altre classi. Un alto livello di spesa pubblica è sostenibile solo se
l’economia tira, solo se cioè gli operai sgobbano e producono crescenti quantità
di plusvalore, di cui si appropriano in primis i borghesi e poi le altre classi
sociali. Nelle fasi di sviluppo capitalistico questa fondamentale differenza fra
i lavoratori tende ad attutirsi, in quanto l’aumento rapido della ricchezza
sociale prodotta rende relativamente compatibile l’esistenza contemporanea di
incrementi dei salari operai e della spesa pubblica, inclusi gli stipendi dei
dipendenti statali. Ma in fasi di crisi come questa le situazioni e gli
interessi tendono a divaricarsi, per cui è sempre più difficile parlare di
coordinamento delle lotte. Lo Slai non solo non dice nulla su queste evidenti ed
oggettive difficoltà, ma intende perseguire ancora una volta la strada
dell’unità di tutte le lotte in cui tutte le realtà esistenti “<I
style="mso-bidi-font-style: normal">abbiano pari dignità</I>”. Un patto
interclassista in cui gli operai verrebbero posti inevitabilmente al carro della
piccola borghesia.<o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">Il programma
“anticapitalistico” di questo fantomatico blocco sociale, organizzato nel
“sindacato di classe” è perfettamente in linea con la sua natura interclassista.
“<I style="mso-bidi-font-style: normal">Lavoro stabile</I>”, “<I
style="mso-bidi-font-style: normal">salario e pensione decenti</I>”, “<I
style="mso-bidi-font-style: normal">diritti certi</I>”, il tutto specificato in
una lista della spesa di tredici punti, del tutto simile ai programmi elettorali
dell’estrema sinistra dei vari Turigliatto, Ferrando e compagni, che pure lo
Slai invita a non votare. Ma se il salario e la pensione “decenti” sono
obiettivi anticapitalistici, allora il vecchio PCI degli anni ’60 e ’70, se non
addirittura la Democrazia Cristiana, devono essere considerati dei veri e propri
partiti anticapitalistici, visto che in quegli anni i lavoratori ottennero con
le lotte nello sviluppo capitalistico tante belle cose, come l’assistenza
sanitaria e l’istruzione pubblica gratuita, gli aumenti dei salari e degli
stipendi, lo statuto dei lavoratori, per poi perderli progressivamente e
inevitabilmente nel corso della crisi.<o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">In conclusione,
l’attuale “svolta” dello Slai invece di rappresentare la presa d’atto della
necessità dell’indipendenza politica degli operai, segna un ulteriore estremo
tentativo di riproporsi come una formazione politico-sindacale della piccola
borghesia e dell’aristocrazia operaia, pronta ad opporsi con ogni mezzo ad ogni
tentativo degli operai di mettersi in proprio. Un triste esempio di ciò lo
abbiamo avuto con l’espulsione dallo Slai di Mimmo Mignano, reo di essersi
opposto alla linea del gruppo dirigente di questa organizzazione. A questa
espulsione ha poi fatto seguito una comunicazione dello Slai, che per quanto ci
risulta non è mai stata resa pubblica, alla direzione aziendale e che ha reso
possibile la destituzione di Mimmo dall’RSU (destituzione contro cui lo Slai
nulla ha fatto), e ciò ha aperto così la strada al suo
licenziamento.<o:p></o:p></SPAN></P>
<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt; TEXT-ALIGN: right" align=right><B
style="mso-bidi-font-weight: normal"><SPAN
style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: 'Arial','sans-serif'">La Sezione AsLO di
Napoli<o:p></o:p></SPAN></B></P></FONT></DIV></BODY></HTML>