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<DIV>Liberazione 14/06/2008<BR><BR><BR>Massimiliano Tomba</DIV>
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<DIV><BR><FONT color=#800080 size=6><STRONG>Le merci sono per natura
cosmopolite</STRONG></FONT></DIV>
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<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT><BR><BR>Le merci sono per natura
cosmopolite. Con lo sfruttamento del mercato mondiale, scrivevano Marx ed Engels
nel 1848, la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al
consumo di tutti i paesi. I prezzi bassi delle merci sono stati l'artiglieria
pesante che ha costretto ogni nazione ad adottare il modo di produzione
capitalistico; dovevano anche costringere «alla capitolazione la più tenace
xenofobia dei barbari». Così non è stato. O meglio: barbarie e civiltà si sono
invertite.<BR>In Italia è iniziata la caccia al romeno. La paranoia antiromena
ha conquistato le prime pagine dei giornali con l'aggressione della donna a Roma
nel settembre 2007. A questa ha fatto eco la richiesta di Walter Veltroni di
estendere anche a casi di violenza sulle persone e sulle cose la normativa
sull'espulsione immediata prevista per i cittadini comunitari quando mettono a
repentaglio la sicurezza nazionale. La «xenofobia dei barbari», pur di non
capitolare di fronte al cosmopolitismo della merce forza-lavoro, è pronta a
sacrificare pezzi dello stato di diritto sull'altare della sicurezza nazionale.
Evocando stati emergenziali viene confermato il carattere opzionale del nesso
tra democrazia e mercato. La libertà di quest'ultimo è glorificata quando si
tratta del movimento delle merci, diventa un problema quando invece riguarda il
movimento di una merce particolare: la forza lavoro. Alla quale è anche
maledettamente attaccato un corpo.<BR><BR>È di questi corpi che si occupa la
ricerca etnografica di Veronica Redini ( Frontiere del "made in Italy".
Delocalizzazione produttiva e identità delle merci , Ombre corte, 2008, pp. 175,
euro 15). L'autrice afferma infatti che il lavoro deve «essere inquadrato in una
prospettiva che focalizzi l'attenzione sui processi di incorporazione, sulla
corporeità e la soggettività in quanto dimensioni centrali in un'analisi critica
dei processi di produzione» (pp. 8-9). Si tratta di un percorso etnografico che
si è svolto a varie riprese tra il 1999 e il 2007 in due città della Romania,
Cluj-Napoca prima e Timisoara poi. La ricerca, nata con l'obiettivo di
analizzare l'attività delle imprese italiane localizzate in Romania, ha posto
attenzione a ciò che avviene in fabbrica, alle relazioni tra imprenditori e
operai, cogliendo però anche tutta l'importanza di ciò che avviene nelle
pratiche del consumo. È questo il tratto specifico della ricerca etnografica di
Veronica Redini: l'interesse per le «pratiche di soggetti che producono oggetti
deve spostare il proprio sguardo dal prodotto e dai significati che gli vengono
attribuiti a quell'ampio contesto in cui tali oggetti nelle fabbriche, nei
negozi o nei luoghi istituzionali operano quegli stessi significati» (p. 8).
Occuparsi di merci italiane prodotte all'estero significa infatti occuparsi
anche dei processi politici di costruzione dell'identità delle merci.<BR>Nel
2001 più del 41% dei prodotti calzaturieri italiani sono stati importati. In
larga misura dalla Romania. Sono infatti circa 16mila le ditte a capitale
italiano attive in Romania. L'analisi del made in Italy , delle sue frontiere,
come recita il titolo del libro di Veronica Redini, deve dunque partire da là.
Dai laboratori romeni. Dall'analisi dei corpi che producono, patiscono e
resistono in un pezzo di Italia situato in Romania. Si tratta di corpi di
operaie costrette a mangiare alla linea della produzione; di corpi che vengono
sistematicamente insultati e che, quando sbagliano, vengono presi a schiaffi dal
tecnico italiano di turno. È qui che prende corpo il razzismo. Anche quello
rabbioso che urla contro i romeni in Italia. Cioè il lato perturbante
dell'Italia in Romania.<BR><BR>I salari romeni sono raggiunti velocemente dal
capitale, il disciplinamento della forza-lavoro ai ritmi di lavoro occidentali
deve essere prodotto con gli strumenti della violenza. La stessa violenza che
accoglie gli occupati romeni che cercano di varcare i confini e riequilibrare il
differenziale salariale emigrando in Italia.<BR><BR>È a partire dai laboratori
della produzione, dalla sfera del comando sulla forza-lavoro che si mostra come
il tentativo di imporre una divisione etnica del lavoro, una differenziazione
geografica di salari e intensità del lavoro, così come si sta delineando in
Europa, presuppone la preliminare etnicizzazione di gruppi di popolazioni.
Quando i "civili" imprenditori italiani, vestendo gli abiti di una lunga
tradizione razzista, affermano che «quello che manca in Romania è l'armonia»,
mentre invece i «popoli sviluppati sono popoli armoniosi» (p. 110), stanno con
ciò marcando lo spazio culturale del made in Italy a partire dal suo altro:
dalla costruzione del romeno. Lamentano infatti che la lunga permanenza in
Romania esporrebbe l'italiano al rischio di «romenizzazione», che, come viene
spiegato da un altro imprenditore italiano, è sinonimo di abbrutimento.
L'italiano romenizzato è «distrutto», «degradato», «degenerato dentro», perché
la «romenizzazione è una dimenticanza di quella che è la propria identità
italiana» (p. 111). Un'identità che segue il destino della merce. Che, dal
momento che i confini economici e del made in Italy non coincidono con quelli
dello Stato-nazione, deve quindi essere costruita.<BR><BR>La difesa della
propria identità italiana è l'immagine vista allo specchio della difesa del made
in Italy delle merci fabbricate in Romania. L'identità italiana viene affermata
per distinguere servi e padroni. Il tecnico italiano imprime il ritmo (p. 56),
le operaie e gli operai romeni lavorano con «il cronometro attaccato al collo»
(p. 63). È il comando italiano sulle produzione a determinare l'identità delle
merci. Chi imprime il ritmo, imprime anche il marchio. Nel mercato mondiale non
importa la localizzazione geografica della produzione: merci fabbricate in
Romania possono essere e sono di fatto made in Italy . Non solo infatti
l'etichetta con scritto made in Italy non indica e «non vuole indicare il luogo
dove effettivamente il prodotto è stato realizzato, ma lo stesso made in è
oggetto di molteplici interpretazioni» (p. 98). Come quando l'italianità della
merce viene negata alle merci fabbricate in Italia nei laboratori cinesi. O
quando, negli Stati Uniti, viene occultata la provenienza cinese delle divise
della Major League di baseball «perché considerate dai consumatori tra i
prodotti di abbigliamento sportivi "più americani"».<BR><BR>Molte sono le
osservazioni possibili sul marchio, sulla sua costruzione culturale e il suo
potere di innalzare il prezzo del prodotto nel mercato. Veronica Redini segue i
molteplici fili di queste interpretazioni, ma riporta poi la barra sul carattere
di feticcio della merce, vale a dire sul «processo di occultamento della fonte
del valore» (p. 109). Nel caso studiato dall'autrice del volume emerge che la
fase romena della vita di queste merci è un momento «che non è incluso nel
processo di riconoscimento del prodotto» (p. 131). Un ex amministratore dello
stabilimento Geko (il nome è fittizio) dice espressamente che sullo stabilimento
non vedi il marchio Geko, ma c'è scritto "Magic Development". Per molto tempo
l'azienda «non ha voluto neanche mettere i quadri, i poster della Geko. Perché
non si doveva sapere che c'era la Geko qui e che produceva con un'azienda di
duemila dipendenti» (p. 117). Un'azienda che in Romania, come in Italia,
continua a praticare una feroce politica antisindacale.<BR><BR>Conformemente al
feticismo delle merci, che rimuove il momento della produzione, l'identità delle
merci, tutta giocata nella sfera della circolazione, rimuove la fase romena
della loro creazione. Rimuove il lavoro di operaie e operai romeni, per poter
appiccicare alla merce l'etichetta di un'identità che permette di rialzarne il
prezzo. Un'identità italiana per un mercato non romeno. I processi di
costruzione di identità passano sempre attraverso linee di inclusione ed
esclusione. Solo la decisione delle operaie romene di riappropriarsi, anche
attraverso il furto, di ciò che loro stesse hanno prodotto, ha indotto le ditte
italiane a prendere in più seria considerazione il mercato interno.<BR>Tutto
questo mostra come la definizione del made in Italy , l'identità della merce,
sia innanzi tutto una attribuzione connessa con l'autorità, con un «procedimento
di oggettificazione culturale attraverso il quale si delinea l'esistenza di cose
e idee italiane». Così se la dicotomia vero/falso viene messa in questione dal
fatto che molti produttori che producono i "veri", producono anche i "falsi", la
dicotomia culturale-egemonica che viene ad affermarsi nella difesa del "vero"
falso, cioè del made in Italy in Romania, è quella tra italiano-bello-armonioso
da un parte, e romeno-brutto-degenerato, dall'altra.<BR><BR>La merce, se solo la
si va a vedere là dove essa riceve il proprio valore e non solo dove essa si
presenta con un prezzo, parla già il linguaggio del razzismo. Feticismo è invece
l'occultamento della produzione, come avviene per il «cosiddetto capitalismo
"immateriale" nel quale tanto più viene affermato il valore di concetti come il
design, lo stile e la ricerca, opacizzando tutto ciò che di pratico viene svolto
altrove, tanto più però esso fonda il proprio funzionamento sulla materialità,
l'alto impiego di manodopera e la standardizzazione delle mansioni» (p. 131). La
delocalizzazione a Est non rappresenta il mondo, ma una porzione di Timisoara
dice del mondo più di quanto non dica Silicon Valley da sola.</DIV>
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