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<DIV style="FONT: 10pt arial"><FONT face=Georgia>----- Original Message -----
</FONT>
<DIV style="BACKGROUND: #e4e4e4; font-color: black"><FONT
face=Georgia><B>From:</B> </FONT><A title=circ.pro.g.landonio@tiscali.it
href="mailto:circ.pro.g.landonio@tiscali.it"><FONT
face=Georgia>circ.pro.g.landonio@tiscali.it</FONT></A><FONT face=Georgia>
</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Georgia><B>To:</B> </FONT><A title=spartacok@alice.it
href="mailto:spartacok@alice.it"><FONT
face=Georgia>spartacok@alice.it</FONT></A><FONT face=Georgia> </FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Georgia><B>Sent:</B> Saturday, December 06, 2008 12:53
AM</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Georgia><B>Subject:</B> h.0.53 del 6 dic. 2007 Anniversario con
allegato...</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Georgia></FONT> </DIV>
<DIV><FONT face=Georgia></FONT> </DIV></DIV><BR>
<H2><FONT face=Georgia><FONT size=4>Lo stabilimento oggi è immerso nelle
tenebre, c'è solo qualche neon acceso negli uffici<BR>Sul muro di cinta
coesistono scritte anarchiche e teneri ricordi di chi non c'è più</FONT>
</FONT></H2>
<H2><FONT face=Georgia></FONT> </H2>
<H2><FONT face=Georgia><!-- fine OCCHIELLO --></FONT></H2>
<H1><!-- inizio TITOLO --><FONT face=Georgia><FONT color=#800080><B>Ritorno alla
Thyssen </B><BR></FONT><B><FONT color=#800080>tra i fantasmi della Linea
5</FONT> </B></FONT></H1>
<H1><FONT face=Georgia></FONT> </H1>
<H1><FONT face=Georgia></FONT> </H1>
<H1><FONT face=Georgia><!-- fine TITOLO --></FONT></H1>
<H3><!-- inizio SOMMARIO --><!-- inizio FIRMA --><SPAN class=txt12><I><FONT
size=2 face=Georgia>di MAURIZIO CROSETTI La Repubblica.it</FONT></I></SPAN><!-- fine FIRMA --><!-- fine SOMMARIO --></H3>
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<DIV class=fotosxb><FONT face=Georgia><FONT size=2><B>TORINO </B>- Il buio è
circondato da seicento metri di muro, e più nessuna insegna. Là sopra, sul tetto
lungo e piatto stava scritto ThyssenKrupp Acciai Speciali: adesso niente, la
fabbrica dei tedeschi non si chiama più. I girasoli attaccati al lampione in una
specie di antico funerale sono secchi, e nel vento penzolano brandelli di
scotch. Silenzio profondo. Poi, improvviso, il rombo dei camion. Qui tutto
appare due volte morto: 6 dicembre 2007, il fuoco, un anno fa. E adesso, e
domani. <BR><BR>La grande magnolia col tronco annerito era un monumento ai
caduti, proprio davanti all'ingresso della fabbrica color ruggine. Forse un
altare, o un grido nel vuoto. Sulla corteccia è rimasto il cartellone con le
sette fotografie, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, poi
un drappo rosso che il tempo ha scolorito. A terra, i resti di qualcosa che fu
un fiore. Arriva una guardia. "Via, qui non si può stare". Ma come? Neanche per
guardare un albero? "Non si può più, per favore, via". Pietro Russo è rimasto lì
dentro fino a qualche giorno fa. Ex impiegato tecnico ora cassintegrato.
<BR><BR>E' stato tra gli ultimi ad abbandonare le navate alte dieci metri e
lunghe trecento. Uno degli ultimi, anche, a poter raccontare cos'è oggi la
"linea 5", quella dove l'aria prese fuoco ingoiando persone. "Ci sono i sigilli
dei giudici tutto attorno ai macchinari, rimasti esattamente come quella sera -
spiega - Hanno spento le luci, non si vede quasi niente. Lì dentro il sole non
entrava mai. E intorno ci sono le fosse, ovviamente in sicurezza, gli enormi
buchi delle macchine smontate e portate a Terni, nell'altro stabilimento
Thyssen". <BR><BR>Bisogna immaginare un interminabile corridoio, racconta
Pietro, con una specie di vagone accanto: il forno. Rossi i pavimenti e i
piloni, gialli i tubi e le ringhiere. Nero tutto il resto. Il buio è un
calamaio, un pozzo sfregiato dall'inferno più o meno a metà strada, 150 metri
oltre l'inizio dei sigilli rossi e bianchi. Manca poco all'una di notte. Il
nastro d'acciaio scorre, sbanda, scintilla, olio e carta innescano la bomba,
scoppia un flessibile pieno d'olio, l'onda è una bocca rossa che divora ogni
vita. "Si vedono ancora le strisce di olio bruciato, uscito dalla macchina e
subito incendiatosi". Gli acidi, i gas, l'elettricità. L'apocalisse. Dopo un
anno, è come guardare dentro il motore di un'immensa auto carbonizzata: tubi,
manicotti, cilindri, bulloni, dischi, tutto però cristallizzato da una specie di
morte nera. Per salvarsi, ed era impossibile, si sarebbero dovuti attraversare
almeno quindici metri compatti di fiamme.
<BR><!--inserto--></FONT></FONT></DIV></DIV>
<DIV id=testo><!--/inserto-->
<DIV><BR><FONT size=2 face=Georgia>Il fumo ha disegnato per sempre i contorni
della strage, anche se i padroni avrebbero voluto portare via tutto, smontare e
rimontare altrove, rimuovere, dimenticare. Lo ha impedito l'inchiesta. "Ma io
ricordo che il mattino dopo il disastro, i tedeschi volevano ripartire con la
produzione" dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. "Non fu facile
impedirlo". Cosa resta dopo un anno? "La ferita della domanda: si poteva
evitare? Io dico di sì. La sconfitta sindacale, perché la fabbrica adesso è
chiusa. E la conferma della generale svalutazione del lavoro operaio, se le
merci diventano più importanti delle persone". <BR><BR>Qualche pallido neon
illumina le palazzine degli impiegati, in un lucore da camera mortuaria. Invece
la fabbrica è totalmente buia. Nell'immensa navata - nell'area delle vecchie
Ferriere lavoravano 13 mila persone negli anni Ottanta, e adesso zero - si
aprono gli abissi della dismissione. Le squadre delle aziende che montarono gli
impianti, come la tedesca Demag, sono venute a smontare, pezzo per pezzo, il
corpo di una fabbrica e la storia di migliaia di persone, sette delle quali
uccise. Prima del rogo avevano già portato via la linea B/A e il laminatoio
Sendzimir 54; dopo tre mesi di stop, a marzo si è tornati a svitare, tagliare,
togliere. Via un secondo laminatoio più grande, il Sendzimir 62, e un terzo più
piccolo, lo Skinpass 62. A seguire, due linee di taglio. "Adesso si sta
dismettendo la linea 4" spiega Pietro Russo. La maledetta linea 5 resta lì,
circondata dal nastro bianco e rosso: a gennaio inizierà il processo in Corte
d'Assise. "La cosa strana è che non c'è puzza di bruciato, e neanche odore di
ferro. Ma neppure prima si sentiva, o forse eravamo talmente abituati da non
sentirlo più". <BR><BR>La massa impressionante è il rotolo d'acciaio da
settemila chili, il termine tecnico è aspo, un enorme cerchio grigio ancora
pieno di macchie d'olio bruciato. "Nella linea 5 lo si rendeva sottile, adatto
alla fabbricazione di oggetti di qualità: posate, pentole, vassoi, ma anche la
lamina delle lavatrici, oppure tubi". Qui ha preso forma l'esatto contenuto
della parola inferno, eppure la voce di Pietro conserva l'orgoglio del lavoro
fatto bene, una specie di bizzarra felicità. "Perché lo voglio dire: qui, fino
al 2006 abbiamo lavorato tanto, in condizioni di sicurezza. Poi l'azienda decise
di chiudere, e allora smise di occuparsi anche delle cose minime però
essenziali, non solo la salute dei lavoratori, persino la carta igienica nei
bagni". <BR><BR>Il silenzio è innaturale per chi conserva nelle orecchie e nella
pancia il boato di una produzione che non si fermava mai, sette giorni su sette,
ventiquattro ore al giorno. Nella palazzina degli uffici si aggirano come zombi
una decina di impiegati: cinque "si collegheranno" alla pensione, altri cinque
faranno compagnia ai 28 operai "da ricollocare", attualmente a Camerana per un
corso d'aggiornamento. Completano l'elenco due disabili e due distacchi: uno è
Antonio Boccuzzi, il superstite della linea 5 diventato deputato. <BR><BR>La
cassa integrazione scadrà il 3 marzo 2010. Chi alla Fiom si è battuto più di
tutti per il loro posto è il sindacalista Fabio Carletti. Adesso il lavoro è
quasi finito, e può scuotere per bene la testa. "Il mio cruccio è avere perso.
Ma, di più, avere conosciuto un padrone che non ha nessuna considerazione degli
altri. Uno che dice con brutalità anche sincera che il lavoratore è suo, lo paga
e dunque ne fa quello che vuole". Invece Giorgio Airaudo prende a schiaffi
l'aria, mentre quasi parla con le mani: "Quando il lavoratore è debole, anche il
sindacato lo è. Forse è venuto il momento di chiedersi cos'è, oggi, la classe
operaia". A Torino, 170 mila metalmeccanici. Il dieci per cento del totale
nazionale. Invisibili. "Io provo tanta rabbia. Poteva non avvenire, doveva non
avvenire". <BR><BR>Il mostruoso vagone della linea 5 è il più lontano
dall'ingresso su corso Regina Margherita: sta quasi addossato all'ex Ilva, altra
acciaieria fantasma. Poi, i centoventi metri del capannone - in larghezza - e la
strada che separa la fabbrica dagli uffici con lo spogliatoio, al piano di
sopra, e sotto la mensa. Dentro, i passi rimbombano come in una cattedrale
sconsacrata. Ma sono gli ultimi rumori. Qualche mese ancora e il silenzio sarà
assoluto, magari non servirà neppure la guardia che adesso si è seduta nella sua
macchina bianca e verde, con le insegne cubitali di una polizia privata, e
aspetta che il ficcanaso metta in moto e sparisca. <BR><BR>Perché questo è il
turpe desiderio, questa l'insana speranza: cancellare ogni cosa, far scappare
gli ultimi residui di memoria. Renderli come il fiocco nero, segno di lutto che
qualche mano pietosa legò al mancorrente e dopo un anno giace a terra, stinto,
insieme ai petali secchi, al cellophane di una remota era preistorica. È
diventato pallido anche l'inchiostro delle scritte. Una, bianca sui mattoni
della palazzina, dice "Mase vive". E magari un po' è vero, finché anche solo un
essere umano ti vuole bene se pure non ci sei più, però Mase - cioè Giuseppe
Demasi, 26 anni, la settima e ultima vittima dopo quattro interventi chirurgici,
una tracheotomia e tre rimozioni di cute in vana attesa della pelle nuova - sta
nello stesso angolo di cimitero degli altri, non tutti, cinque, dove una
striscia azzurra tracciata dal Comune indica la strada, aiutando a trovare i
ragazzi morti nel fuoco della fabbrica. Anche così si prova a non dimenticare.
L'altra scritta in realtà sono due, spruzzate dodici mesi fa da una bomboletta
contro il cemento del muretto esterno, dove si appoggia la ringhiera verde.
<BR><BR>"Di lavoro si muore, sciopero selvaggio" con tre punti esclamativi. E
più a destra, continuando: "Operai bloccate tutto!" e il simbolo dell'anarchia.
Remotissimo, quest'ultimo slancio a battaglia ormai conclusa, perduta.
<BR><BR>Invece la quarta scritta è un tabellone pubblicitario, messo proprio
dove comincia la fabbrica e dove finisce la città. Dice: "Christmas Village,
vola in un magico Natale". Appesi a un secondo lampione, due mazzetti di rose
rosse hanno resistito alle stagioni, all'estate torrida e a questo freddo
cattivo: i fiori stanno imbozzolati dentro il cellophane, con molti giri di
nastro adesivo per isolare e difendere. Viene quasi da immaginare il gesto
d'amore feroce, certamente di mano di donna, che pose quei fiori. Proteggerò
tutto di te. <BR><BR><!-- do nothing -->Il traffico della tangenziale sposta
l'aria con schiaffi decisi. Ogni tanto la sbarra del parcheggio si solleva e
libera un'auto che pare guidata da nessuno: chi è rimasto non è meno spettro di
chi è andato. Dalla montagna in fondo al corso, nitida e netta come una
cartolina o forse un sogno, scende aria gelata. Il cielo ha lo stesso colore
dell'acciaio che si srotolava da gomitoli alti come una casa, finché lo
maneggiavano gli operai della Thyssen. Ma stasera sembra un coperchio posato sul
mondo. </FONT></DIV>
<DIV><FONT size=2 face=Georgia></FONT> </DIV>
<DIV><FONT size=2 face=Georgia></FONT><!-- do nothing --></DIV></DIV>
<P><SPAN class=date><FONT size=2 face=Georgia>(<I><!-- inizio DATA -->5 dicembre
2008<!-- fine DATA --></I>)</FONT></SPAN></P></FONT></DIV></BODY></HTML>