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<TITLE>Messaggio</TITLE>
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<DIV><FONT color=#0000ff size=2>Ieri un altro lavoratore è morto all'Ilva di
Taranto. Un manutentore di una ditta d'appalto. Il terzo dall'inizio
dell'anno. Si chiamava Jan Zygmuntjan Paurowicz, aveva 54 anni ed era
all'ultimo giorno di lavoro nell'altoforno. Lo vogliamo ricordare con questo
testo di Francesca Caliolo che racconta <BR>la storia di suo marito, un altro
operaio che lavorava all'Ilva, un altro operaio morto sul posto di lavoro, da
solo. Francesca scrive immedesimandosi nel marito, facendo come se lei fosse
lui. Racconta, in poche pagine struggenti, la sua ultima giornata «da vivo».
Da qualche tempo Francesca gira l'Italia per raccontare la storia di suo
marito, il dolore e l'ingiustizia per lei e per i suoi figli di quella
assenza. Perché non ci sia più assuefazione, fatalismo, silenzio.
<BR><BR>Francesca Caliolo<BR>Il giorno in cui misi piede per la prima volta
come operaio nel cantiere Ilva di Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai
mi era accaduto nella mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla
fine di quella giornata. Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi
di mobilità e decine di domande inoltrate a ditte del settore, un contratto a
due mesi mi aveva dato respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato
in trasferta qualche anno prima. Quella sensazione che avevo ora però, era di
definitiva appartenenza a quel luogo e questo mi infondeva pessimismo per il
futuro. Dovevo avere un´espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia
moglie mi abbracciò forte, dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa
di meglio. Invece restai in quella ditta per due anni, passai in un´altra come
caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima, divenendo
vice-capocantiere circa tre anni dopo. <BR>Questo scatto di livello mi
gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande responsabilità, a causa di
lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare. Ciò che restava immutato
era il paesaggio.</FONT></DIV>
<DIV><FONT color=#0000ff size=2>Contro un cielo velato dai fumi, si
stagliavano bizzarre architetture: come cattedrali futuriste consacrate alla
grande economia, svettavano numerose ciminiere, attorniate da condutture
metalliche che percorrevano in lungo e in largo la città-cantiere,
trasportando enormi quantità di gas, per arrivare ai potenti altoforni capaci
di ridurre i metalli in lava incandescente.<BR>A fumi e vapori si aggiungeva
il `polverino´, come lo chiamavano qui, che si sollevava dalle nere colline di
carbone dei parchi minerali, in una sorta di moderna rivisitazione
dell´Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente, il tutto era
avvolto dalle note dell´"Inno alla gioia" di Beethoven, diffuse dagli
altoparlanti per sottolineare il momento culmine della "colata". A questo
scenario pian piano non ci feci più caso, se non per il fatto che gradualmente
contribuiva ad aggravare la mia allergia. La prima estate che affrontai in
Ilva fu una delle più calde in assoluto. Toccò i 40° e a noi toccò
ristrutturare un altoforno ancora caldo, situato vicino a un altro in
funzione, a 1.800°. In seguito bisognò revisionare dei silos contenenti
residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole inutilizzabili:
condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a
fine turno. <BR>Strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse
una qualche capacità funambolica. Difficile raccontare questo stato di cose a
chi non conosceva quell'ambiente. E infatti non lo raccontavo. Non lo
raccontavo ai conoscenti, non lo raccontavo ai parenti. <BR>Non lo raccontavo
agli storici amici, insieme ai quali avevo condiviso battaglie sociali. Col
tempo le nostre vite erano cambiate; dal punto di vista del lavoro però, la
mia vita era cambiata più delle loro. Lavoratori per lo più "di concetto", li
ritenevo teorici idealisti, lontani anni luce dal mondo cui accennavo loro con
battute ironiche. Mia moglie era l'unica a conoscere nei dettagli la mia
realtà lavorativa. Quasi ogni mattina, mi chiamava per un rapido saluto che mi
rincuorava e poi, una volta a casa, mi martellava di domande per conoscere
tutto della mia giornata.<BR>Benché restìo a raccontare aspetti poco
rassicuranti per lei, mi ritrovavo poi a farle un resoconto completo anche di
dettagli tecnici. <BR>Questo suo modo di essermi vicina, era parte integrante
di una condivisione totale della nostra vita e aveva in effetti il potere di
alleviare tante giornate difficili. Così come mi aiutava il bellissimo,
profondo legame con i nostri figli. Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti
umani. Ci tenevo a stabilire rapporti di amicizia prima che professionali; una
risata, una battuta, qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più
pesanti. Avevo buoni rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i
superiori come per l´ultimo arrivato.<BR>In passato avevo subito troppe
vessazioni solo per essermi opposto a delle ingiustizie, da parte di capi tesi
ad affermare il proprio ruolo, per non nutrire rispetto per chi avevo di
fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al fianco dei miei operai per
condividere rischi e fatica. Era nel periodo delle "fermate", vale a dire il
blocco produttivo di un settore del cantiere, che permetteva a noi di
intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che tutto andasse per
il meglio. <BR>Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. <BR>Non lo lasciavo perché
volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare una attività
indipendente, magari nella ristorazione. Cosa non facile con una famiglia
monoreddito e due figli in crescita. D´altro canto, per quanto ancora avrei
potuto svolgere un lavoro così usurante con due vertebre schiacciate, un
menisco lesionato e una tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un
lavoro che mi lasciasse più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e
programmare finalmente delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica,
fare passeggiate senza sentirmi stanco e stressato. E se la stanchezza era
dovuta alla manualità del lavoro, lo stress derivava dal carico di
responsabilità, per l'esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi
sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni
impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e addirittura 24 ore di
seguito! Nel contempo bisognava fare attenzione che nessuno si facesse male e,
a dire il vero, la frequenza degli incidenti in tutta l´Ilva non lasciava ben
sperare. <BR>A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di
tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta, si moriva
anche. Le morti ci lasciavano attoniti, a pensare all´esagerato tributo da
pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante. <BR>Eroi, martiri
del lavoro? Nessuna medaglia, non funerali di stato.<BR>E credo che nessuno di
quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che chiedeva sacrifici in
nome di interessi economici, e non si prodigava ad attuare migliori misure di
sicurezza, definendo "morti fisiologiche" quelle 2-3 che in media si
verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000 persone. Ci
sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso.
Protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la
morte cercando di non pensarci. D'altronde nella nostra ditta non era mai
morto nessuno. Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in Ilva e
sono ancora qui, alle prese con un´ennesima "fermata" che si presenta
particolarmente complicata e che mi ha caricato di tensione già da qualche
settimana. <BR>Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi; neppure
la giornata di ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa non comune
per me. <BR>Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare a dormire,
col pretesto che non aveva sistemato bene la piega del lenzuolo. <BR>Lei ci è
rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e intrattabile e non ci
siamo neppure dati la buonanotte. <BR>Più tardi appena avrò un po´ di tempo la
chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo sa che se non termina la fermata non
torno sereno. <BR>E questo lavoro ci dà già delle noie, un´operazione che non
va per il verso giusto, ci tocca smontare e rimontare. <BR>Siamo a venti metri
da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che è stato svuotato,
così ci hanno assicurato, del gas che trasportava. Indossiamo maschere
collegate a bombole d´aria perché potrebbero esserci residui di gas, non è la
prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare. E infatti
verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male. Questo gas è
inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore
ma ormai è certo che da qualche parte c'è una perdita, comincio ad avere mal
di testa. <BR>Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né
l'Ilva si possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non
va, non gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non
lavorare più. Meno male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo non è
la prima volta che respiro questo maledetto gas. Mi dà nausea, vertigini, mal
di testa, ma una volta a casa mi riprendo, devo resistere fino ad allora.
<BR>Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli dell'altra squadra
ed io per rispondere e richiamarli devo togliere la maschera. Non posso ogni
volta scavalcare questo tubo che ha 3m di diametro per raggiungere la
postazione di sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la scala di accesso è
dall´altra parte, così mi allontano del massimo che mi è consentito.
<BR>Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci
vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi. <BR>Ultimamente
sono stato anche un po´duro con lui, ma non vorrei mai che si trovasse
costretto un giorno a fare questo. <BR>Ora non ce la faccio proprio più, mi
sento mancare le forze. Mi allontano verso l´ufficio, vorrei chiamare Franca
ma si accorgerebbe che qualcosa non va, non voglio preoccuparla. <BR>Nella
mente mi scorrono delle immagini. Mi rivedo ragazzino a bottega dal fabbro,
durante le vacanze estive, mentre i miei amici giocano nel cortile
dell´oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove mesi e son dovuto
crescere in fretta. <BR>Mia madre, contadina, ha dovuto tirare su cinque figli
da sola. <BR>Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio da fare
che il muratore, stringendo i denti per la fatica eccessiva per un fisico
esile come il mio. Qualche anno dopo sono diventato un bravo venditore di
macchinari per falegnameria, con i cui proventi ho potuto costruire la mia
casa. <BR>Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla condizione di
operaio stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi. Dopo altri
nove anni la ditta ci impone la condizione di trasfertisti; non ce la faccio
ad allontanarmi dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi così in mobilità.
Fino ad oggi ho trascorso quasi nove anni qui in Ilva e chissà, forse la mia
vita avrà una nuova svolta. <BR>Non cerco di dare un senso a questa mia vita
di fatica e sacrifici. Il senso è gia tutto negli affetti. <BR>D´altronde la
felicità non è una condizione continua, se non nelle fiabe. <BR>Noi dobbiamo
accontentarci delle piccole cose e vivere intensamente i momenti di felicità
che ci capitano, come dice mia moglie, che sa restituirmi la gioia di vivere.
Ora devo tornare al lavoro, non mi sento ancora bene. <BR>Qualcuno mi
sconsiglia di risalire, non ho un bell'aspetto, dice. Non posso, siamo una
squadra ed io ne sono anche responsabile. <BR>Infatti i problemi non sono
ancora risolti; insistiamo, ricominciano le telefonate. Cambia il turno, mi
sollecitano a lasciare ad altri il completamento del lavoro. Non posso, ci
sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio completarlo. <BR>Stasera a
casa voglio abbracciare Franca, Gabriele e Roberta. <BR>Dire loro quanto li
amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e poi voglio
cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così stanco che
all'improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi, squilla il
cellulare, dormo. <BR>* * *<BR>Amore mio, è passato un anno da quando non ci
sei più. <BR>Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia
chiamata, se proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi. <BR>Di quel
giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore di una
realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri
ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro
adorato papà. <BR>Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto
cadere tra le sue braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata
prima. <BR>Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci
col tuo amore e la tua tenerezza. <BR>Dev'essere così, altrimenti non saprei
spiegarmi perché continuo ad amarti tanto e ad avere la forza di vivere senza
di te.<BR></FONT></DIV>
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