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<DIV><FONT color=#800080 size=7><STRONG>Il valore reale del lavoro non c'è
più</STRONG></FONT></DIV>
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<DIV><STRONG><FONT color=#800080 size=7></FONT></STRONG> </DIV>
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<P class=RassegnaStampa-Articolo-Autore>di Massimo Roccella *</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testata>su Il Manifesto del 25/01/2009</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Abstract></P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo>Il modello contrattuale doveva essere
riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in
termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo,
dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto
opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del
cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano
stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce
che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo
occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno
all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei
salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere
sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo,
sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari.
Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe
apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del
lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità
ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo><BR>Andiamo al merito. Al contratto
collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei
trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore».
Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire,
non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno
contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della
salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno
essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un
fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della
cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni
energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione
effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera
retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei
singoli settori. Con evidente possibilità che per questa via si consegua il
risultato di una più accentuata svalorizzazione della retribuzione globale
(quanto previsto per il pubblico impiego, con buona pace del modello unico di
contrattazione, rende più evidente il problema, essendosi precisato che l'indice
previsionale sarà applicato «ad una base di calcolo costituita dalle voci di
carattere stipendiale», con effetti dirompenti se l'indicazione dovesse essere
riferita ai soli minimi tabellari); e infine perché è prevista un'inedita
possibilità che il ccnl subisca deroghe peggiorative ad opera della
contrattazione territoriale o aziendale: possibilità che dovrebbe essere
funzionale anche a «favorire lo sviluppo economico e occupazionale».</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo><BR>Quanto alla contrattazione di secondo
livello, tutti coloro, la Cisl in primis, che in questi anni hanno sostenuto la
necessità di garantirne l'effettività e una più ampia diffusione, non si sono
mai preoccupati di chiarire come l'obiettivo avrebbe potuto essere conseguito. I
commentatori del Sole-24Ore continuano ad enfatizzare la funzione di incentivo
che dovrebbe essere svolto dall'«elemento di garanzia retributiva», pensato per
assicurare attraverso il contratto nazionale un incremento salariale aggiuntivo
ai lavoratori (la stragrande maggioranza) dipendenti da imprese dove la
contrattazione aziendale non viene praticata: accettando di negoziare sui salari
in sede aziendale - era l'idea - le imprese non sarebbero state tenute ad
erogare quella voce salariale aggiuntiva. Fatto è che, giunti all'approdo
finale, la novità è degradata a mera eventualità, la cui traduzione operativa
resta affidata a scelte discrezionali dei singoli contratti. L'unico impulso
alla contrattazione di secondo livello, in definitiva, continuerà a riposare sul
consistente sconto fiscale graziosamente elargito da Tremonti, col decreto legge
del novembre scorso, alle imprese che concordino aumenti retributivi legati alla
«produttività». Si può scommettere che d'ora innanzi non ci sarà incremento
retributivo aziendale che non venga rubricato sotto la voce «salario di
produttività»: come dire che le imprese, che sino a ieri erano disposte a
concedere ai propri dipendenti 10 euro netti di aumento in busta paga,
continueranno anche domani a corrispondere la stessa cifra, ma risparmieranno
sull'incremento lordo (ovvero sul costo del lavoro) a spese del bilancio
pubblico. Se poi, per effetto di questa dissennata politica di tagli fiscali,
sarà necessario ridurre la spesa pubblica sociale, con tutte le ovvie
conseguenze sul reddito dei lavoratori, che importa? Preoccupazioni del genere
non toccano la sensibilità dei negoziatori dell'accordo del 22 gennaio. C'è
comunque una terza possibilità: le imprese che lo vorranno potrebbero anche
decidere di erogare unilateralmente «salario di produttività», dal momento che
il beneficio fiscale prescinde dal carattere, negoziato o meno, dello stesso: in
questo modo il cerchio si chiuderebbe e la tanto sbandierata effettività della
contrattazione di secondo livello rivelerebbe appieno il suo carattere puramente
declamatorio.</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo><BR>A fronte della crescita delle
disuguaglianze, che verosimilmente discenderà dall'applicazione dell'accordo, ha
fatto bene la Cgil a dissociarsi, così come giustamente reclama adesso che
l'intesa raggiunta a Palazzo Chigi sia almeno sottoposta a referendum. E' assai
improbabile che sia ascoltata, né c'è da aspettarsi che a Corso d'Italia
giungano convinti attestati di solidarietà dall'opposizione parlamentare. Qui,
forse, si tocca proprio la radice ultima di quanto sta accadendo. Un accordo
sulle regole senza l'adesione della maggiore organizzazione sindacale si è
potuto concludere evidentemente perché Confindustria e governo hanno ritenuto il
momento propizio per isolare la Cgil. La solitudine dei lavoratori e
l'isolamento della Cgil rappresentano, in fondo, le due facce della stessa
medaglia: l'una e l'altro si spiegano bene in un contesto in cui è venuta meno
la rappresentanza politica del lavoro. Il sostegno più convinto alla Cgil è
ovviamente, per parte nostra, fuori discussione: ma se non si saprà colmare il
fossato fra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, sarà davvero
difficile risalire la china.</P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo> </P>
<P class=RassegnaStampa-Articolo-Testo><FONT face=Arial size=2></FONT><BR><BR>*
giuslavorista, ordinario del diritto del lavoro all'università di
Torino</P></DIV><BR><BR><!-- |**|end egp html banner|**| --><!-- |**|begin egp html banner|**| --><IMG
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